In queste ore, i venti assassini della finanza speculativa sconquassano ancora una volta, a pochi mesi dalla drammatica crisi greca, i cieli europei. E’ la volta dell’Irlanda – la “bonne élève” delle politiche europee di globalizzazione.
Purtroppo, l’instabilità monetaria, che agita le cronache dei giornali, è solo il triste annuncio di quello che rischia di succedere nelle prossime settimane: prima il prosciugamento delle già scarse risorse pubbliche comunitarie, poi, freddi e inesorabili, i tagli ai bilanci e alla spesa pubblica in molti Paesi europei.
Francesco Giavazzi scrive sul Corriere della Sera del 24 novembre che sono “l’incertezza e i ritardi della politica che preoccupano i mercati e che alimentano la speculazione”.
Mercati e speculazione– sarebbe bene che lo ammettesse per una volta Giavazzi – non sono entità metafisiche e astratte. Anzi, a ben vedere, proprio in queste ore, “mercati” e “speculazione” rappresentano interessi ben precisi, con nomi e cognomi tra i noti gruppi di investitori finanziari internazionali. Istituzioni finanziarie scientemente organizzate per lucrare sulle sciagure di interi comparti di economia pubblica e su ampie fasce di società.
Occorre dare un nome a questi professionisti della speculazione finanziaria, e il loro nome è senza enfasi: avvoltoi. Avvoltoi che, in nome del libero mercato, guadagnano in pochi secondi enormi somme di denaro giocando al ribasso o al rialzo, poco importa, sulle quotazioni dei titoli pubblici; avvoltoi che aggrediscono, alla stregua di carogne, ieri la Grecia, oggi l’Irlanda, domani il Portogallo, dopodomani la Spagna e, infine, chissà?
Sia chiaro: non sono investitori costoro e non è mercato codesto.
Ma di fronte a tanto disastro finanziario, ecco che l’economista, come ogni buon medico chiamato al capezzale del malato, emette la sua diagnosi e proclama la propria ricetta. E qual è la ricetta del medico Giavazzi? Occorre “limitare la garanzia (del Fondo europeo per la stabilità) al livello pattuito nel Trattato di Maastricht”, ovvero per un massimo del 60% del debito pubblico dei singoli Stati. Oltre quel limite – specifica Giavazzi – che ognuno si arrangi e faccia quello che meglio crede per salvarsi dagli avvoltoi, perché l’Europa intera nulla può di fronte alla potenza del mercato!
“Quello che meglio crede” è da intendersi, con le politiche monetarie e fiscali prevalenti, né più né meno che cruda macelleria sociale.
In Italia, questo significherebbe ancora una volta - e lo sappiamo già per esperienza diretta: tagli indiscriminati alla scuola, alla sanità, al welfare, all’occupazione.
Lo vediamo proprio in queste ore in Irlanda che cosa significhi macelleria sociale: decine di migliaia di posti di lavoro pubblico soppressi, tagli enormi agli investimenti, alla spesa sociale, ai consumi dei ceti medi e bassi della popolazione. Gli unici strumenti di politica economica che non vengono toccati – “per non preoccupare i mercati” – sono le esenzioni e gli incentivi fiscali alle imprese.
Tra gli analisti, qualcuno ha – mi chiedo – la più pallida idea di quali siano le conseguenze sociali di questo modo di agire? Qualcuno si interroga davvero su quale sia la valenza sociale di una redistribuzione di ricchezza di proporzioni bibliche come quella a cui assistiamo, dalle tasche di gente che fatica ad arrivare a fine mese a beneficio dei conti blindati delle istituzioni finanziarie che in questi giorni macinano profitti giganteschi di miliardi di euro?
All’indecenza morale degli avvoltoi, non è razionale né lecito rispondere con il cinismo dei macellai.
Occorre invertire la rotta prima che sia troppo tardi. Prima che i disastri che questa crisi finanziaria sta provocando producano tali quantità di odio sociale da indurre una sequela di conflitti e un caos civile che nessuno saprebbe governare.
Per questo occorre andare oltre le ciniche pratiche di economia da guerra civile che attraversano l’Europa per tornare il prima possibile alla Ragione.
Giampietro Pizzo
Venezia, 25 novembre 2010
PS: Se qualcuno volesse davvero esercitarsi con politiche di riduzione del deficit pubblico e di contenimento del debito pubblico italiano potrebbe, intanto, cominciare con fare due cose. La prima, sul fronte delle entrate, si chiama imposta sulle transazioni finanziarie, ovvero sulle speculazioni finanziarie. Ne deriverebbe un’entrata di proporzioni tali che molti dei nostri problemi fiscali assumerebbero tutt’altra proporzione. La seconda, sul fronte della spesa, si chiama riduzione drastica della spesa militare. Gli attacchi da cui dobbiamo difenderci non si arrestano certo con armi e aerei caccia. Semmai il contrario. E sarebbe proprio un bel taglio alla spesa pubblica!
giovedì 25 novembre 2010
Avvoltoi e macellai
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lunedì 8 novembre 2010
I due Paesi
Per capire l’Italia di oggi non c’è bisogno di aprire i giornali, le televisioni, i media in generale. Anzi questo rende tutto più difficile, confuso, inutile. Per capire questo nostro povero e bistrattato Paese, bisogna avere occhi nuovi, ma capaci di memoria.
E’ questo che si fa drammaticamente urgente: vedere, ascoltare, capire.
Non vedono i politici che, in queste ore, ripropongono polemiche vuote, vecchi sotterfugi, giochetti tattici, dentro e fuori il Palazzo in nome di una crisi istituzionale, a sentir loro, da evitare a tutti i costi.
Non ascoltano i ministri di questo governo ormai morto, né lo fanno i capitani di ventura di un capitalismo senza vergogna, mentre predicano all’unisono ricette marce e false sulla ripresa dell’economia italiana.
Non capiscono gli esperti sondaggisti né gli analisti politici quello che di profondo, irreversibile, inedito sta accadendo nella società italiana.
Per questo dobbiamo vedere, ascoltare, capire per conto nostro.
Dobbiamo farlo fuori dal Palazzo e fuori dalle accademie; fuori dai consigli di amministrazione delle grandi società e fuori dalle riunioni di redazione dei giornali. Dobbiamo farlo noi che “fuori” da quel mondo autoreferenziale e spesso fasullo ci siamo già.
Eppure non lo possiamo fare ognuno per proprio conto: dobbiamo essere in tanti ritrovando, soprattutto, il modo di stare insieme.
Conosciamo la nostra condizione. Siamo poveri di strumenti di analisi, perché in questi anni hanno fatto tabula rasa delle pratiche di partecipazione cittadina. Siamo disorientati e spaventati, perché le mille sirene del berlusconismo sono entrate un po’ nelle orecchie di tutti: nessuno escluso. Siamo confusi e incerti nella ricerca di quali principi e regole sociali ci debbano guidare, perché l’amoralità, lo scetticismo, il qualunquismo hanno annullato decenni di democrazia.
Eppure dobbiamo farlo. E credo che molti stiano pensando la stessa cosa: che nessuno si salva dinanzi alla catastrofe culturale di un Paese; nessuno uscirebbe indenne dai crolli sociali e nessuno potrebbe sottrarsi ai fiumi di fango che irromperebbero fino in fondo alle nostre vite private e pubbliche.
E’ questa istanza, questa urgenza che io chiamerei, per intenderci, la “nuova Politica”. Una “nuova Politica” che sia un moto di salvezza, una reazione di vita, capace di attraversare le attuali appartenenze politiche sconvolgendole alla radice.
Questa azione collettiva, chiamata a salvare l’Italia, non sarà certo indolore: bisognerà saper indicare responsabilità e omissioni, ipocrisie e inettitudini; per questo, occorrerà, fra l’altro, un “radicale” ricambio di classe dirigente.
In tempi straordinari, la moderazione è cattiva consigliera e il buon senso comune è chiamato a dormire per un po’ il sonno dei giusti.
In tempi nuovi, occorre essere aperti, lungimiranti e generosi, andando oltre i rancori e le idiozie competitive, trascurando i vili egoismi individuali.
Questo accadde nei tempi bui della catastrofe fascista e dell’occupazione nazista. In quell’Italia martoriata e affamata, un ciclo nuovo si aprì. Chi ne fu protagonista non furono uomini e donne eccezionali ma persone comuni che assunsero su di sé il destino di un popolo.
Io credo che questo possa e debba – pena il caos e la barbarie – succedere in Italia oggi.
A questo progetto politico, che non ha certo segnata la strada, ma che è memore di quanto di buono si è costruito in Italia nella seconda metà del Novecento, siamo chiamati a contribuire. Lo vogliamo fare da quella parte, che si chiama Sinistra, che incarna ancor oggi, in modo inequivocabile, i valori della giustizia, dell’eguaglianza e della libertà.
Pier Paolo Pasolini, nel suo ultimo anno di vita, quasi presagendo la fine, accelerò enormemente il proprio sforzo per vedere, ascoltare e capire che cos’era l’Italia. Vide una società che si arrendeva al peggio di sé stessa; ascoltò, con tutta la sua sensibilità di poeta e di intellettuale, i mille silenzi sulle stragi di Stato e le voci mute delle vittime; capì che una nuova forza politica doveva farsi carico, prima che fosse troppo tardi, “della salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni democratiche”.
Ma quella forza politica – che per Pasolini era allora il Partito Comunista - doveva farlo andando oltre le separazioni, risolvendo innanzitutto il paradosso di accontentarsi di rappresentare “un paese pulito in un paese sporco, un paese onesto in un paese disonesto, un paese intelligente in un paese idiota, un paese colto in un paese ignorante, un paese umanistico in un paese consumistico”.
Perché l’antica divisione dell’Italia “in due paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l'altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività”.
Per questa ragione non possiamo essere solo una Parte/Partito, perché non possiamo rappresentare solo il migliore di quei due Paesi, ma dobbiamo far sì che quell’altro Paese, che ha, in questi decenni, invaso, distorto, distrutto le nostre vite, venga letteralmente meno, si dissolva, si annulli, per lasciare posto, pacificamente, a un solo grande pulito onesto intelligente colto Paese.
E’ questo l’unico obiettivo della Politica che verrà.
8 novembre 2010
Giampietro Pizzo
E’ questo che si fa drammaticamente urgente: vedere, ascoltare, capire.
Non vedono i politici che, in queste ore, ripropongono polemiche vuote, vecchi sotterfugi, giochetti tattici, dentro e fuori il Palazzo in nome di una crisi istituzionale, a sentir loro, da evitare a tutti i costi.
Non ascoltano i ministri di questo governo ormai morto, né lo fanno i capitani di ventura di un capitalismo senza vergogna, mentre predicano all’unisono ricette marce e false sulla ripresa dell’economia italiana.
Non capiscono gli esperti sondaggisti né gli analisti politici quello che di profondo, irreversibile, inedito sta accadendo nella società italiana.
Per questo dobbiamo vedere, ascoltare, capire per conto nostro.
Dobbiamo farlo fuori dal Palazzo e fuori dalle accademie; fuori dai consigli di amministrazione delle grandi società e fuori dalle riunioni di redazione dei giornali. Dobbiamo farlo noi che “fuori” da quel mondo autoreferenziale e spesso fasullo ci siamo già.
Eppure non lo possiamo fare ognuno per proprio conto: dobbiamo essere in tanti ritrovando, soprattutto, il modo di stare insieme.
Conosciamo la nostra condizione. Siamo poveri di strumenti di analisi, perché in questi anni hanno fatto tabula rasa delle pratiche di partecipazione cittadina. Siamo disorientati e spaventati, perché le mille sirene del berlusconismo sono entrate un po’ nelle orecchie di tutti: nessuno escluso. Siamo confusi e incerti nella ricerca di quali principi e regole sociali ci debbano guidare, perché l’amoralità, lo scetticismo, il qualunquismo hanno annullato decenni di democrazia.
Eppure dobbiamo farlo. E credo che molti stiano pensando la stessa cosa: che nessuno si salva dinanzi alla catastrofe culturale di un Paese; nessuno uscirebbe indenne dai crolli sociali e nessuno potrebbe sottrarsi ai fiumi di fango che irromperebbero fino in fondo alle nostre vite private e pubbliche.
E’ questa istanza, questa urgenza che io chiamerei, per intenderci, la “nuova Politica”. Una “nuova Politica” che sia un moto di salvezza, una reazione di vita, capace di attraversare le attuali appartenenze politiche sconvolgendole alla radice.
Questa azione collettiva, chiamata a salvare l’Italia, non sarà certo indolore: bisognerà saper indicare responsabilità e omissioni, ipocrisie e inettitudini; per questo, occorrerà, fra l’altro, un “radicale” ricambio di classe dirigente.
In tempi straordinari, la moderazione è cattiva consigliera e il buon senso comune è chiamato a dormire per un po’ il sonno dei giusti.
In tempi nuovi, occorre essere aperti, lungimiranti e generosi, andando oltre i rancori e le idiozie competitive, trascurando i vili egoismi individuali.
Questo accadde nei tempi bui della catastrofe fascista e dell’occupazione nazista. In quell’Italia martoriata e affamata, un ciclo nuovo si aprì. Chi ne fu protagonista non furono uomini e donne eccezionali ma persone comuni che assunsero su di sé il destino di un popolo.
Io credo che questo possa e debba – pena il caos e la barbarie – succedere in Italia oggi.
A questo progetto politico, che non ha certo segnata la strada, ma che è memore di quanto di buono si è costruito in Italia nella seconda metà del Novecento, siamo chiamati a contribuire. Lo vogliamo fare da quella parte, che si chiama Sinistra, che incarna ancor oggi, in modo inequivocabile, i valori della giustizia, dell’eguaglianza e della libertà.
Pier Paolo Pasolini, nel suo ultimo anno di vita, quasi presagendo la fine, accelerò enormemente il proprio sforzo per vedere, ascoltare e capire che cos’era l’Italia. Vide una società che si arrendeva al peggio di sé stessa; ascoltò, con tutta la sua sensibilità di poeta e di intellettuale, i mille silenzi sulle stragi di Stato e le voci mute delle vittime; capì che una nuova forza politica doveva farsi carico, prima che fosse troppo tardi, “della salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni democratiche”.
Ma quella forza politica – che per Pasolini era allora il Partito Comunista - doveva farlo andando oltre le separazioni, risolvendo innanzitutto il paradosso di accontentarsi di rappresentare “un paese pulito in un paese sporco, un paese onesto in un paese disonesto, un paese intelligente in un paese idiota, un paese colto in un paese ignorante, un paese umanistico in un paese consumistico”.
Perché l’antica divisione dell’Italia “in due paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l'altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività”.
Per questa ragione non possiamo essere solo una Parte/Partito, perché non possiamo rappresentare solo il migliore di quei due Paesi, ma dobbiamo far sì che quell’altro Paese, che ha, in questi decenni, invaso, distorto, distrutto le nostre vite, venga letteralmente meno, si dissolva, si annulli, per lasciare posto, pacificamente, a un solo grande pulito onesto intelligente colto Paese.
E’ questo l’unico obiettivo della Politica che verrà.
8 novembre 2010
Giampietro Pizzo
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mercoledì 13 ottobre 2010
Meno tasse, più imposte
Il federalismo fiscale è ormai alle porte. E mentre la Lega canta vittoria, molti cittadini si interrogano su quale sarà l’effettivo impatto sulla loro condizione economica e sociale.
Lo slogan “meno tasse per tutti” è ormai più un luogo comune del teatrino della politica che una reale opzione amministrativa. Il federalismo fiscale aveva, al riguardo, creato inizialmente molte aspettative. Ora le cose cominciano a rivelarsi per quello che sono: il passaggio di competenze agli Enti Locali avverrà senza un’adeguata copertura finanziaria e stante la situazione di grave crisi della finanza pubblica, le Regioni e i Comuni saranno obbligati a introdurre nuovi balzelli e nuove tasse per far quadrare i conti.
Di fronte a questa situazione, bisognerà mettere da parte gli slogan e fare finalmente sul serio. Fare sul serio significa, ad esempio, porre con chiarezza il tema delle entrate tributarie.
Per cominciare, è bene che i cittadini sappiano di cosa si sta parlando.
Ciò che quotidianamente chiamiamo “tasse”, corrisponde, in realtà, a due categorie tributarie radicalmente diverse: le imposte, da un lato, e le tasse e vere e proprie, dall’altro. Non si tratta di introdurre capziosi distinguo accademici ma di rendere evidente qual è la sostanziale differenza tra i due strumenti di prelievo fiscale.
Le tasse sono il prezzo che i cittadini pagano per un servizio pubblico: sono tasse quelle sui rifiuti, sul traffico portuale e aeroportuale, etc.
In realtà, sempre più, per alcuni servizi pubblici quantificabili, alle tasse vere e proprie si vanno sostituendo sistemi specifici di tariffazione (è questo il caso, ad esempio, dei rifiuti).
Le imposte invece sono un tributo non legato a uno specifico servizio pubblico; costituiscono un prelievo generale per far fronte alla spesa pubblica. Come recita l’articolo 53 della nostra Costituzione: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.”
Di questo criterio di progressività, basato sul principio “chi più ha, più paga”, nessuno oggi sembra volersi ricordare. Le “tasse” hanno dunque prevalso oltre che nell’uso linguistico anche nella pratica politica.
Ecco allora che di fronte alla crisi della finanza locale, la risposta più immediata e automatica è: aumentiamo tasse e tariffe.
E’ successo, a Venezia, pochi mesi fa, con le tariffe del trasporto pubblico e sembra destinato a succedere a breve per i rifiuti, le mense scolastiche e per tanti altri servizi pubblici essenziali. In questo modo, l’iniquità è palese: tutti pagano lo stesso contributo, sia che si tratti di un disoccupato o di uno studente, sia che si tratti di un ricco possidente. L’effetto è chiaramente regressivo perché il sacrificio per chi ha un reddito modesto e un bisogno incomprimibile è di gran lunga più elevato di chi ha redditi alti e beneficia, in alternativa, di servizi privati (il caso più emblematico è la sanità).
Per riaffermare un minimo di giustizia fiscale, dobbiamo tornare a parlare di imposte. E’ noto a tutti che gli Enti Locali non hanno “autonomia impositiva”, ma questi dovranno, volenti o nolenti, ottenerla se non vorranno dichiarare fallimento. In primis, l’addizionale IRPEF. Ma non basta. Occorrono un’imposta sui fabbricati e una sui grandi patrimoni. E a Venezia ce n’è bisogno più che altrove, perché questa città non può essere trattata alla stregua di una mucca da mungere, peraltro particolarmente debilitata, dove coloro che ne traggono il massimo beneficio non si preoccupano affatto se riesce a nutrirsi a sufficienza!
I francesi ricordano spesso che fu per una diversa giustizia fiscale che fecero la rivoluzione del ’89. Presso i cugini d’oltralpe, diritti individuali e doveri cittadini costituiscono l’architettura stessa del farsi comunità. Per questa ragione, in Francia pagare le imposte è parte essenziale dell’essere cittadino. La storia italiana è un’altra: senza vere rivoluzioni e con molte mediazioni. Eppure abbiamo bisogno degli stessi materiali per ricostruire un patto fiduciario tra i cittadini; un new deal che ci consenta di uscire dal pantano in cui ci troviamo.
E’ tempo che i cantori del liberismo smettano di predicare che con la crescita le entrate pubbliche torneranno ad aumentare, perché non c’è sviluppo laddove non vi è il minimo per preparare il futuro. Un minimo che si chiama scuola, sanità, manutenzione delle infrastrutture esistenti, trasporti efficienti, etc.
Perché, per sfatare un altro luogo comune, da un pezzo, nel nostro bel Paese, non paga più Pantalone ma semmai il povero Arlecchino. E’ ora di cambiare copione.
Giampietro Pizzo
Lo slogan “meno tasse per tutti” è ormai più un luogo comune del teatrino della politica che una reale opzione amministrativa. Il federalismo fiscale aveva, al riguardo, creato inizialmente molte aspettative. Ora le cose cominciano a rivelarsi per quello che sono: il passaggio di competenze agli Enti Locali avverrà senza un’adeguata copertura finanziaria e stante la situazione di grave crisi della finanza pubblica, le Regioni e i Comuni saranno obbligati a introdurre nuovi balzelli e nuove tasse per far quadrare i conti.
Di fronte a questa situazione, bisognerà mettere da parte gli slogan e fare finalmente sul serio. Fare sul serio significa, ad esempio, porre con chiarezza il tema delle entrate tributarie.
Per cominciare, è bene che i cittadini sappiano di cosa si sta parlando.
Ciò che quotidianamente chiamiamo “tasse”, corrisponde, in realtà, a due categorie tributarie radicalmente diverse: le imposte, da un lato, e le tasse e vere e proprie, dall’altro. Non si tratta di introdurre capziosi distinguo accademici ma di rendere evidente qual è la sostanziale differenza tra i due strumenti di prelievo fiscale.
Le tasse sono il prezzo che i cittadini pagano per un servizio pubblico: sono tasse quelle sui rifiuti, sul traffico portuale e aeroportuale, etc.
In realtà, sempre più, per alcuni servizi pubblici quantificabili, alle tasse vere e proprie si vanno sostituendo sistemi specifici di tariffazione (è questo il caso, ad esempio, dei rifiuti).
Le imposte invece sono un tributo non legato a uno specifico servizio pubblico; costituiscono un prelievo generale per far fronte alla spesa pubblica. Come recita l’articolo 53 della nostra Costituzione: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.”
Di questo criterio di progressività, basato sul principio “chi più ha, più paga”, nessuno oggi sembra volersi ricordare. Le “tasse” hanno dunque prevalso oltre che nell’uso linguistico anche nella pratica politica.
Ecco allora che di fronte alla crisi della finanza locale, la risposta più immediata e automatica è: aumentiamo tasse e tariffe.
E’ successo, a Venezia, pochi mesi fa, con le tariffe del trasporto pubblico e sembra destinato a succedere a breve per i rifiuti, le mense scolastiche e per tanti altri servizi pubblici essenziali. In questo modo, l’iniquità è palese: tutti pagano lo stesso contributo, sia che si tratti di un disoccupato o di uno studente, sia che si tratti di un ricco possidente. L’effetto è chiaramente regressivo perché il sacrificio per chi ha un reddito modesto e un bisogno incomprimibile è di gran lunga più elevato di chi ha redditi alti e beneficia, in alternativa, di servizi privati (il caso più emblematico è la sanità).
Per riaffermare un minimo di giustizia fiscale, dobbiamo tornare a parlare di imposte. E’ noto a tutti che gli Enti Locali non hanno “autonomia impositiva”, ma questi dovranno, volenti o nolenti, ottenerla se non vorranno dichiarare fallimento. In primis, l’addizionale IRPEF. Ma non basta. Occorrono un’imposta sui fabbricati e una sui grandi patrimoni. E a Venezia ce n’è bisogno più che altrove, perché questa città non può essere trattata alla stregua di una mucca da mungere, peraltro particolarmente debilitata, dove coloro che ne traggono il massimo beneficio non si preoccupano affatto se riesce a nutrirsi a sufficienza!
I francesi ricordano spesso che fu per una diversa giustizia fiscale che fecero la rivoluzione del ’89. Presso i cugini d’oltralpe, diritti individuali e doveri cittadini costituiscono l’architettura stessa del farsi comunità. Per questa ragione, in Francia pagare le imposte è parte essenziale dell’essere cittadino. La storia italiana è un’altra: senza vere rivoluzioni e con molte mediazioni. Eppure abbiamo bisogno degli stessi materiali per ricostruire un patto fiduciario tra i cittadini; un new deal che ci consenta di uscire dal pantano in cui ci troviamo.
E’ tempo che i cantori del liberismo smettano di predicare che con la crescita le entrate pubbliche torneranno ad aumentare, perché non c’è sviluppo laddove non vi è il minimo per preparare il futuro. Un minimo che si chiama scuola, sanità, manutenzione delle infrastrutture esistenti, trasporti efficienti, etc.
Perché, per sfatare un altro luogo comune, da un pezzo, nel nostro bel Paese, non paga più Pantalone ma semmai il povero Arlecchino. E’ ora di cambiare copione.
Giampietro Pizzo
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domenica 3 ottobre 2010
E’ un lusso che non ci possiamo permettere
Basta sfogliare qualsiasi giornale, italiano o europeo, patinato o meno, per rendersi conto quanto l’attenzione al lusso e all’economia che ne deriva sia predominante. Eppure i dati drammatici della crisi sono sotto gli occhi di tutti: perdita secca del potere d’acquisto della maggioranza dei lavoratori; tassi crescenti di disoccupazione e sottoccupazione, con punte di eccezionale gravità tra i giovani e nelle regioni del Meridione; aumento delle persone in condizioni di povertà o a rischio di esclusione sociale.
Ecco invece moltiplicarsi ovunque i Luxury Hotel e gli Exclusive Resort; spuntano come funghi, in città come in provincia, Wellness centres e residenze di lusso; appaiono per incanto in un paesaggio italiano da sempre ostile, per ovvie ragioni, verso questo tipo di infrastrutture, campi da golf e darsene per yacht e superyacht.
E’ di pochi giorni fa un articolo (Nuova Venezia del 28/9/10) accompagnato da una mappa del Lido di Venezia nella quale si indicano tutti gli interventi immobiliari previsti nei prossimi anni. A guardare con attenzione, sorprende come su più di un miliardo di euro di nuovi investimenti immobiliari nulla riguardi sia pur indirettamente servizi pubblici (scuola, sanità, interventi sociali) o strutture abitative standard. No. E’ invece tutto un pullulare di residenze di lusso, darsene, luxury resort, piscine, etc. E quello che vale per il Lido, vale per la città storica. E quello che vale per Venezia sembra sia la costante di tante parti del nostro “felicissimo” territorio italiano.
Del resto questo è il paese di Paperon Berlusconi e di Villa Certosa; nel quale, un amministratore delegato, Sergio Marchionne, guadagna 435 volte quanto ricava dal proprio lavoro quotidiano un suo dipendente a Pomigliano d’Arco. Perché stupirsi allora che il mercato più promettente sia quello dei beni di lusso e degli investimenti d’élite?
Sembra di essere tornati a tre secoli fa, quando in pieno ‘700 gli intellettuali europei si interrogavano sul lusso e sugli effetti che i consumi di una risicatissima casta di nobili e di rentiers potevano o meno produrre sulla ricchezza delle nazioni.
Questo dibattito, noto come “polemica sul lusso”, contrappose autori famosi come Montesquieu, Voltaire e Rousseau e meno noti come Mandeville o Melon. Al di là delle considerazioni morali sul lusso come vizio e dissolutezza, il nodo della questione riguardava il modello stesso di società da promuovere e favorire. In quel contesto, si inseriva in particolare l’analisi di quali fossero le implicazioni economiche di un accresciuto consumo voluttuario.
Nell’articolo sul “Lusso” scritto per l’Encyclopédie da Jean-François de Saint-Lambert si riportano i principali argomenti a favore e a discapito del lusso. Tra i vantaggi sono indicati “il benessere degli stati, la circolazione del denaro, il progresso della conoscenza e la produzione delle opere d’arte”; tra gli svantaggi sono ricordati: “la distribuzione diseguale della ricchezza, la distruzione del paesaggio, l’indebolimento del coraggio e il soffocamento degli interessi pubblici”.
Perché riproporre ora, nel 2010, questo tipo di considerazioni? Direi per due ordini di motivi.
Il primo è che se è vero che l’economia del lusso aveva una funzione precisa nel sostegno della domanda e quindi nella crescita economica degli Stati europei pre-industriali, storicamente la situazione è profondamente cambiata. Per molto tempo, nel dopoguerra, la creazione – come direbbero gli economisti – di domanda effettiva è stata assegnata alla spesa pubblica e in particolare alle politiche di welfare.
Perché oggi si dovrebbe dunque privilegiare l’antica economia del lusso invece che propugnare un democratico rilancio degli investimenti nei servizi pubblici? La domanda è volutamente ingenua e la risposta altrettanto scontata: il mercato, bellezza!
Ma quando si tratta, come nel caso del Lido di Venezia, di decisioni pubbliche a favore di gruppi finanziari privati che investono nell’immobiliare di lusso e di risorse territoriali comuni di cui beneficieranno pochissime persone, questa scontata e banale risposta non è più accettabile.
La seconda considerazione è ben più amara: il ruolo dei consumi di lusso nelle società europee del XVIII secolo coincise con una situazione di dilagante povertà ed era chiaramente il prodotto di iniquità spaventose. Quella drammatica situazione, si sa, si tradusse, sul finire del secolo dei lumi, nel collasso dell’ancien régime e nello scoppio della rivoluzione del 1789. E l’epilogo è ben noto: molti dei principali sostenitori di quella domanda effettiva furono ospiti di Madame Guillotine.
Giampietro Pizzo
Ecco invece moltiplicarsi ovunque i Luxury Hotel e gli Exclusive Resort; spuntano come funghi, in città come in provincia, Wellness centres e residenze di lusso; appaiono per incanto in un paesaggio italiano da sempre ostile, per ovvie ragioni, verso questo tipo di infrastrutture, campi da golf e darsene per yacht e superyacht.
E’ di pochi giorni fa un articolo (Nuova Venezia del 28/9/10) accompagnato da una mappa del Lido di Venezia nella quale si indicano tutti gli interventi immobiliari previsti nei prossimi anni. A guardare con attenzione, sorprende come su più di un miliardo di euro di nuovi investimenti immobiliari nulla riguardi sia pur indirettamente servizi pubblici (scuola, sanità, interventi sociali) o strutture abitative standard. No. E’ invece tutto un pullulare di residenze di lusso, darsene, luxury resort, piscine, etc. E quello che vale per il Lido, vale per la città storica. E quello che vale per Venezia sembra sia la costante di tante parti del nostro “felicissimo” territorio italiano.
Del resto questo è il paese di Paperon Berlusconi e di Villa Certosa; nel quale, un amministratore delegato, Sergio Marchionne, guadagna 435 volte quanto ricava dal proprio lavoro quotidiano un suo dipendente a Pomigliano d’Arco. Perché stupirsi allora che il mercato più promettente sia quello dei beni di lusso e degli investimenti d’élite?
Sembra di essere tornati a tre secoli fa, quando in pieno ‘700 gli intellettuali europei si interrogavano sul lusso e sugli effetti che i consumi di una risicatissima casta di nobili e di rentiers potevano o meno produrre sulla ricchezza delle nazioni.
Questo dibattito, noto come “polemica sul lusso”, contrappose autori famosi come Montesquieu, Voltaire e Rousseau e meno noti come Mandeville o Melon. Al di là delle considerazioni morali sul lusso come vizio e dissolutezza, il nodo della questione riguardava il modello stesso di società da promuovere e favorire. In quel contesto, si inseriva in particolare l’analisi di quali fossero le implicazioni economiche di un accresciuto consumo voluttuario.
Nell’articolo sul “Lusso” scritto per l’Encyclopédie da Jean-François de Saint-Lambert si riportano i principali argomenti a favore e a discapito del lusso. Tra i vantaggi sono indicati “il benessere degli stati, la circolazione del denaro, il progresso della conoscenza e la produzione delle opere d’arte”; tra gli svantaggi sono ricordati: “la distribuzione diseguale della ricchezza, la distruzione del paesaggio, l’indebolimento del coraggio e il soffocamento degli interessi pubblici”.
Perché riproporre ora, nel 2010, questo tipo di considerazioni? Direi per due ordini di motivi.
Il primo è che se è vero che l’economia del lusso aveva una funzione precisa nel sostegno della domanda e quindi nella crescita economica degli Stati europei pre-industriali, storicamente la situazione è profondamente cambiata. Per molto tempo, nel dopoguerra, la creazione – come direbbero gli economisti – di domanda effettiva è stata assegnata alla spesa pubblica e in particolare alle politiche di welfare.
Perché oggi si dovrebbe dunque privilegiare l’antica economia del lusso invece che propugnare un democratico rilancio degli investimenti nei servizi pubblici? La domanda è volutamente ingenua e la risposta altrettanto scontata: il mercato, bellezza!
Ma quando si tratta, come nel caso del Lido di Venezia, di decisioni pubbliche a favore di gruppi finanziari privati che investono nell’immobiliare di lusso e di risorse territoriali comuni di cui beneficieranno pochissime persone, questa scontata e banale risposta non è più accettabile.
La seconda considerazione è ben più amara: il ruolo dei consumi di lusso nelle società europee del XVIII secolo coincise con una situazione di dilagante povertà ed era chiaramente il prodotto di iniquità spaventose. Quella drammatica situazione, si sa, si tradusse, sul finire del secolo dei lumi, nel collasso dell’ancien régime e nello scoppio della rivoluzione del 1789. E l’epilogo è ben noto: molti dei principali sostenitori di quella domanda effettiva furono ospiti di Madame Guillotine.
Giampietro Pizzo
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venerdì 19 marzo 2010
Difendiamo il patrimonio pubblico
Il 20 marzo sarà una giornata di mobilitazione nazionale per affermare che l’acqua è un bene pubblico. Nel paese di Berlusconi, purtroppo, questa cosa, che i bambini capiscono benissimo, non è affatto scontata.
Non è scontato neppure, nel mondo di “un culo su do careghe” - alias Renato Brunetta - , che le case popolari siano un patrimonio sociale che preserva tutti. Perché a tutti, meno che a Mr. Week-end, sapere che in una situazione di bisogno potremmo accedere a un alloggio, ci fa sentire un po’ meno insicuri e meno soli.
Ma no, si sa, l’indole proprietaria del ministro della funzione pubblica è smisurata. Per questo vuole ottenere, in tempi brevissimi, devastanti risultati. Vendere il patrimonio dell’ATER significherebbe, infatti, chiudere l’accesso a una casa popolare a chiunque ne avesse bisogno e, nello stesso tempo, significherebbe svendere in un colpo solo un patrimonio immobiliare preziosissimo.
Bingo! – direbbe il malefico Joker nella Gotham City di Batman. Eppure, con tutta la nostra fantasia, stentiamo a credere che il sadismo di “un culo su do careghe” voglia davvero portare lo spirito malefico di Joker proprio a Ca’ Farsetti.
Ma torniamo a più seri ragionamenti.
La febbre della liquidazione immobiliare non è a Venezia una malattia delle ultime ore.
Cacciari ha zelantemente ben incarnato il ruolo del liquidatore immobiliare. Sua è purtroppo l’invenzione delle ultime cartolarizzazioni e dell’entrata in scena a Venezia di Mr. Mossetto e della sua EST CAPITAL. Il fondo Real Venice, di proprietà di Mossetto & Co., possiede ormai alcune delle gioie del nostro ex-patrimonio comunale.
E così hanno infatti privatizzato mezza isola del Lido – dall’Ospedale al Mare al Forte di Malamocco senza trascurare aree verdi di inestimabile valore.
Il mantra – lo sappiamo – è sempre lo stesso: “no ghe xe schei fioi e no podemo far altro!”
Un “altro” che noi invece vogliamo non solo immaginare ma pretendere dalla prossima amministrazione comunale. Un altro, senza se e senza ma. Perché continuando di questo passo non solo il pubblico non avrà più una funzione di servizio in città ma non avrà soprattutto alcun ruolo regolatore nelle logiche immobiliari cittadine.
Perché – ed è bene ricordarlo – tutti gli immobili venduti hanno una sola ed unica destinazione: la trasformazione in strutture ricettive o di supporto all’economia turistica.
Oggi qualcuno piange perché la Corte costituzionale mette i bastoni fra le ruote al cambio di destinazione d’uso degli immobili alienati. Ma, francamente, noi non sappiamo chi pianga di più: se le finanze del Comune o la città, che vedrebbe ridotte ulteriormente le sue funzioni urbane, a profitto di una monocultura turistica sempre più devastante.
Occorre dunque cambiare registro. L’acqua è e deve rimanere bene comune. Le case popolari sono e devono restare un bene sociale. Il patrimonio comunale è uno spazio pubblico irrinunciabile per difendere e ricostruire la biodiversità urbana.
Ai contabili che si stracciano le vesti per i deficit di cassa e ai furbi che si leccano i baffi di fronte a tanta cuccagna in liquidazione dovremo, equamente, nella prossima amministrazione, porre un sacrosanto freno.
Per rimettere, semplicemente e con determinazione, al centro la politica e il bene cittadino. Ricordiamocelo, senza esitazioni, quando depositeremo il nostro voto nell’urna.
Giampietro Pizzo
Non è scontato neppure, nel mondo di “un culo su do careghe” - alias Renato Brunetta - , che le case popolari siano un patrimonio sociale che preserva tutti. Perché a tutti, meno che a Mr. Week-end, sapere che in una situazione di bisogno potremmo accedere a un alloggio, ci fa sentire un po’ meno insicuri e meno soli.
Ma no, si sa, l’indole proprietaria del ministro della funzione pubblica è smisurata. Per questo vuole ottenere, in tempi brevissimi, devastanti risultati. Vendere il patrimonio dell’ATER significherebbe, infatti, chiudere l’accesso a una casa popolare a chiunque ne avesse bisogno e, nello stesso tempo, significherebbe svendere in un colpo solo un patrimonio immobiliare preziosissimo.
Bingo! – direbbe il malefico Joker nella Gotham City di Batman. Eppure, con tutta la nostra fantasia, stentiamo a credere che il sadismo di “un culo su do careghe” voglia davvero portare lo spirito malefico di Joker proprio a Ca’ Farsetti.
Ma torniamo a più seri ragionamenti.
La febbre della liquidazione immobiliare non è a Venezia una malattia delle ultime ore.
Cacciari ha zelantemente ben incarnato il ruolo del liquidatore immobiliare. Sua è purtroppo l’invenzione delle ultime cartolarizzazioni e dell’entrata in scena a Venezia di Mr. Mossetto e della sua EST CAPITAL. Il fondo Real Venice, di proprietà di Mossetto & Co., possiede ormai alcune delle gioie del nostro ex-patrimonio comunale.
E così hanno infatti privatizzato mezza isola del Lido – dall’Ospedale al Mare al Forte di Malamocco senza trascurare aree verdi di inestimabile valore.
Il mantra – lo sappiamo – è sempre lo stesso: “no ghe xe schei fioi e no podemo far altro!”
Un “altro” che noi invece vogliamo non solo immaginare ma pretendere dalla prossima amministrazione comunale. Un altro, senza se e senza ma. Perché continuando di questo passo non solo il pubblico non avrà più una funzione di servizio in città ma non avrà soprattutto alcun ruolo regolatore nelle logiche immobiliari cittadine.
Perché – ed è bene ricordarlo – tutti gli immobili venduti hanno una sola ed unica destinazione: la trasformazione in strutture ricettive o di supporto all’economia turistica.
Oggi qualcuno piange perché la Corte costituzionale mette i bastoni fra le ruote al cambio di destinazione d’uso degli immobili alienati. Ma, francamente, noi non sappiamo chi pianga di più: se le finanze del Comune o la città, che vedrebbe ridotte ulteriormente le sue funzioni urbane, a profitto di una monocultura turistica sempre più devastante.
Occorre dunque cambiare registro. L’acqua è e deve rimanere bene comune. Le case popolari sono e devono restare un bene sociale. Il patrimonio comunale è uno spazio pubblico irrinunciabile per difendere e ricostruire la biodiversità urbana.
Ai contabili che si stracciano le vesti per i deficit di cassa e ai furbi che si leccano i baffi di fronte a tanta cuccagna in liquidazione dovremo, equamente, nella prossima amministrazione, porre un sacrosanto freno.
Per rimettere, semplicemente e con determinazione, al centro la politica e il bene cittadino. Ricordiamocelo, senza esitazioni, quando depositeremo il nostro voto nell’urna.
Giampietro Pizzo
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domenica 14 marzo 2010
L’affaire Di Girolamo e il signor Marchi
Qualche giorno fa, durante la tempesta che ha portato alle dimissioni del senatore Nicola Di Girolamo per riciclaggio e infiltrazioni mafiose nella sua elezione a senatore della Repubblica, per poco, e fugacemente, è apparso nella cronaca che lo riguardava anche il nome di Enrico Marchi – presidente della SAVE.
Poche settimane orsono, il signor Marchi è stato al centro di una delle scelte politiche più delicate per il futuro di Venezia: Tessera City.
Tessera City - per i pochi distratti o smemorati – è il nome della maggiore operazione immobiliare che si prepara a Venezia e che significherà, se le istituzioni di questa città non vi si opporranno presto e con determinazione, il sorgere ex nihilo di una enorme nuova area edificabile privata di cui sono dubbie sia l’utilità pubblica che le modalità di realizzazione e di gestione.
Come purtroppo sappiamo sin troppo bene, nel “bel paese” le operazioni immobiliari sono state e sono tuttora, purtroppo, altamente “sensibili”: facile preda di appetiti poco leciti, di manipolazioni illegali, e nel peggiore dei casi, esposte a vere e proprie infiltrazioni mafiose.
Le più attente indagini e analisi del fenomeno criminoso ci dicono che i grandi interessi della mafia si sono ormai trasferiti “altrove”: in Italia e in Europa.
Quando con poco – in questo caso una “semplice” osservazione dei privati a una variante del PRG di Venezia – si può, come Re Mida, trasformare ettari di terra in oro, è quanto meno doveroso essere doppiamente prudenti.
Si dà invece il caso che il dominus di tutta l’operazione – il signor Enrico Marchi, per l’appunto – sia stato “malgré lui” molto vicino al detto ex-senatore di Girolamo.
Nel gennaio 2007 Enrico Marchi acquisisce il controllo della società finanziaria svizzera EgoBank proprietà di Di Girolamo e ne condivide l’amministrazione per qualche tempo. Le cointeressenze durano in verità 18 mesi (sino al luglio 2008, da quanto si deduce dalle anticipazioni sulle indagini giudiziarie in corso).
Come ha dichiarato la Direzione Distrettuale Antimafia di Roma, la banca, che ora è controllata da Marchi: «era una delle "centrali" del flusso di riciclaggio e spartizione del denaro tra i membri della banda delle frodi telefoniche».
Accortamente, Enrico Marchi, neo-proprietario della banca di Di Girolamo, provvede a cambiarne il nome (da Egobank a Banca Credinvest). Forse per segnare una ragionevole discontinuità con il suo discutibile predecessore?
Comunque sia, credo che questa “notizia” non debba passare sotto silenzio e che un approfondimento politico ancor prima che giudiziario sia doveroso.
Ne va, del resto, del destino non solo e non tanto di un uomo d’affari ma di un pezzo importante della nostra città e del nostro territorio. Spero che molti concorderanno con il sottoscritto – a cominciare dal sindaco uscente che ha condiviso non poche scelte amministrative e territoriali con il presidente di Save negli ultimi tempi.
Ne va, infine, del nostro futuro: un futuro che vorremmo trasparente, sicuro e senza pericoli di infiltrazioni (di qualsiasi genere).
Spero che tutti, a destra come a sinistra, ne converremo. E che nessuno risponderà che sono affari di Marchi. No, signori, sono proprio affari nostri!
Anche questa può essere una buona base di partenza per l’amministrazione comunale che verrà.
Giampietro Pizzo
Poche settimane orsono, il signor Marchi è stato al centro di una delle scelte politiche più delicate per il futuro di Venezia: Tessera City.
Tessera City - per i pochi distratti o smemorati – è il nome della maggiore operazione immobiliare che si prepara a Venezia e che significherà, se le istituzioni di questa città non vi si opporranno presto e con determinazione, il sorgere ex nihilo di una enorme nuova area edificabile privata di cui sono dubbie sia l’utilità pubblica che le modalità di realizzazione e di gestione.
Come purtroppo sappiamo sin troppo bene, nel “bel paese” le operazioni immobiliari sono state e sono tuttora, purtroppo, altamente “sensibili”: facile preda di appetiti poco leciti, di manipolazioni illegali, e nel peggiore dei casi, esposte a vere e proprie infiltrazioni mafiose.
Le più attente indagini e analisi del fenomeno criminoso ci dicono che i grandi interessi della mafia si sono ormai trasferiti “altrove”: in Italia e in Europa.
Quando con poco – in questo caso una “semplice” osservazione dei privati a una variante del PRG di Venezia – si può, come Re Mida, trasformare ettari di terra in oro, è quanto meno doveroso essere doppiamente prudenti.
Si dà invece il caso che il dominus di tutta l’operazione – il signor Enrico Marchi, per l’appunto – sia stato “malgré lui” molto vicino al detto ex-senatore di Girolamo.
Nel gennaio 2007 Enrico Marchi acquisisce il controllo della società finanziaria svizzera EgoBank proprietà di Di Girolamo e ne condivide l’amministrazione per qualche tempo. Le cointeressenze durano in verità 18 mesi (sino al luglio 2008, da quanto si deduce dalle anticipazioni sulle indagini giudiziarie in corso).
Come ha dichiarato la Direzione Distrettuale Antimafia di Roma, la banca, che ora è controllata da Marchi: «era una delle "centrali" del flusso di riciclaggio e spartizione del denaro tra i membri della banda delle frodi telefoniche».
Accortamente, Enrico Marchi, neo-proprietario della banca di Di Girolamo, provvede a cambiarne il nome (da Egobank a Banca Credinvest). Forse per segnare una ragionevole discontinuità con il suo discutibile predecessore?
Comunque sia, credo che questa “notizia” non debba passare sotto silenzio e che un approfondimento politico ancor prima che giudiziario sia doveroso.
Ne va, del resto, del destino non solo e non tanto di un uomo d’affari ma di un pezzo importante della nostra città e del nostro territorio. Spero che molti concorderanno con il sottoscritto – a cominciare dal sindaco uscente che ha condiviso non poche scelte amministrative e territoriali con il presidente di Save negli ultimi tempi.
Ne va, infine, del nostro futuro: un futuro che vorremmo trasparente, sicuro e senza pericoli di infiltrazioni (di qualsiasi genere).
Spero che tutti, a destra come a sinistra, ne converremo. E che nessuno risponderà che sono affari di Marchi. No, signori, sono proprio affari nostri!
Anche questa può essere una buona base di partenza per l’amministrazione comunale che verrà.
Giampietro Pizzo
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martedì 2 marzo 2010
Alla ricerca del buon candidato
Oggi è stato pubblicato l’elenco delle liste e dei candidati che ritroveremo sulla scheda delle elezioni comunali il prossimo 28 e 29 marzo. Come sempre, tanti nomi e tante ragioni diverse: alcune più pesanti, altre dissonanti, altre semplicemente occasionali.
“E’ la democrazia, bellezza!” – mi diranno subito i più accorti. E sia, ma come districarsi, come venirne a capo?
Due approcci mi vengono subito alla mente.
Il primo è quello del tifoso, che sceglie senza esitare e che, come direbbe una mia amica emiliana, non ha paura a mettere “il cervello in folle” e a fare tutto il possibile perché la sua squadra (il suo partito) vinca, costi quel che costi.
Il secondo, decisamente più scettico, è quello di chi guarda a questo guazzabuglio e fatica sinceramente a farsene una ragione.
Io, lo ammetto, sono più interessato al secondo gruppo. Per due ordini di ragioni: la prima, triviale, è che non sono un tifoso (neppure di una squadra di calcio); la seconda, è che vorrei mettermi davvero nei panni di un elettore che scende sul pianeta “Venezia” e che cerca di capirci qualcosa.
Il punto di partenza purtroppo non è incoraggiante: e capirci qualcosa è estremamente complicato.
Cerchiamo allora di raccattare qualche strumento che ci possa servire nella perigliosa navigazione elettorale.
Come leggere e scegliere tra i candidati?
Con banalità, direi: usando un po’ di intelligenza e un po’ di passione. Ma su questo piano ognuno troverà risposte distinte e scelte differenti. E ognuno avrà le proprie argomentazioni: il tale mi è più simpatico o il talaltro è senz’altro più competente e capace.
Quello che invece ci dovrebbe innanzitutto trovare tutti concordi è che disonestà e individualismo sono due mali maggiori per la democrazia. Due mali che rendono la democrazia brutta, volgare, arruffona e disastrosa, per la comunità che la pratica o che semplicemente la ospita.
Noi, invece – poveri Candide! -, ci ostiniamo a credere che la democrazia debba essere bella, dunque complicata, dunque difficile, dunque necessaria.
La politica mi appassiona, ma probabilmente non ci capirò mai quanto basta per cambiarla.
Per questo, come recita uno dei personaggi della letteratura che mi accompagna sin dall’infanzia, il signor Cipollone, padre di Cipollino, uscito felicemente dalla penna di Gianni Rodari, dirò: “figlio, vai per il mondo e studia. Studia i briganti che troverai sulla tua strada”. Se questa lezione morale ha un senso, allora la prima cosa che suggerisco ad ognuno di noi, è di mettere da parte, come se si trattasse di merce avariata, i tanti troppi “briganti” che troveremo sulla nostra scheda elettorale.
Fatta la cernita, e sarà – ahimé – abbondante, vediamo quello che resta.
Restano – scusate se taglio con l’accetta – tre classi di persone: quelle che stanno sempre con chi vince (i cosiddetti opportunisti); quelli che stanno sempre contro (i cosiddetti apocalittici) e quelli che cercano di capire qualcosa di quello che può essere fatto.
Consiglierei di scartare le prime due categorie umane e di concentrarsi con determinazione sulla terza. Lo dico perché, a questo punto, abbiamo ancora molta strada da fare.
Diciamo che a questa terza lista di persone possiamo ricondurre almeno due tipi umani: coloro che tirano a campare, sapendo che gli uomini non sono né buoni né cattivi, e coloro che sognano di cambiare il mondo, e si illudono che gli uomini sia più buoni che cattivi.
I primi saranno anche i più intelligenti; i secondi, sicuramente meno, ma sono quelli che amo di più.
Personalmente li amo perché sognano contro l’evidenza, perché non si arrendono davanti alle miserie umane, perché sono ingenui quando tutti sono scaltri e sono svegli quando tutti dormono.
Certo, sono la minoranza e sono la minoranza che quasi sempre perde. Ma, chissà, “avere un sogno” è quello che rende il futuro possibile e la politica qualcosa di bello.
A cercare e cercare, ne troveremo sicuramente pochi nella congerie delle liste elettorali e fra i candidati. Ma se nella difficile selezione ne rimarrà anche solo uno, uno soltanto, per quanto mi riguarda sarà valsa la pena.
E per la comunità cittadina, la democrazia rappresenterà ancora una volta la migliore speranza.
Giampietro Pizzo
“E’ la democrazia, bellezza!” – mi diranno subito i più accorti. E sia, ma come districarsi, come venirne a capo?
Due approcci mi vengono subito alla mente.
Il primo è quello del tifoso, che sceglie senza esitare e che, come direbbe una mia amica emiliana, non ha paura a mettere “il cervello in folle” e a fare tutto il possibile perché la sua squadra (il suo partito) vinca, costi quel che costi.
Il secondo, decisamente più scettico, è quello di chi guarda a questo guazzabuglio e fatica sinceramente a farsene una ragione.
Io, lo ammetto, sono più interessato al secondo gruppo. Per due ordini di ragioni: la prima, triviale, è che non sono un tifoso (neppure di una squadra di calcio); la seconda, è che vorrei mettermi davvero nei panni di un elettore che scende sul pianeta “Venezia” e che cerca di capirci qualcosa.
Il punto di partenza purtroppo non è incoraggiante: e capirci qualcosa è estremamente complicato.
Cerchiamo allora di raccattare qualche strumento che ci possa servire nella perigliosa navigazione elettorale.
Come leggere e scegliere tra i candidati?
Con banalità, direi: usando un po’ di intelligenza e un po’ di passione. Ma su questo piano ognuno troverà risposte distinte e scelte differenti. E ognuno avrà le proprie argomentazioni: il tale mi è più simpatico o il talaltro è senz’altro più competente e capace.
Quello che invece ci dovrebbe innanzitutto trovare tutti concordi è che disonestà e individualismo sono due mali maggiori per la democrazia. Due mali che rendono la democrazia brutta, volgare, arruffona e disastrosa, per la comunità che la pratica o che semplicemente la ospita.
Noi, invece – poveri Candide! -, ci ostiniamo a credere che la democrazia debba essere bella, dunque complicata, dunque difficile, dunque necessaria.
La politica mi appassiona, ma probabilmente non ci capirò mai quanto basta per cambiarla.
Per questo, come recita uno dei personaggi della letteratura che mi accompagna sin dall’infanzia, il signor Cipollone, padre di Cipollino, uscito felicemente dalla penna di Gianni Rodari, dirò: “figlio, vai per il mondo e studia. Studia i briganti che troverai sulla tua strada”. Se questa lezione morale ha un senso, allora la prima cosa che suggerisco ad ognuno di noi, è di mettere da parte, come se si trattasse di merce avariata, i tanti troppi “briganti” che troveremo sulla nostra scheda elettorale.
Fatta la cernita, e sarà – ahimé – abbondante, vediamo quello che resta.
Restano – scusate se taglio con l’accetta – tre classi di persone: quelle che stanno sempre con chi vince (i cosiddetti opportunisti); quelli che stanno sempre contro (i cosiddetti apocalittici) e quelli che cercano di capire qualcosa di quello che può essere fatto.
Consiglierei di scartare le prime due categorie umane e di concentrarsi con determinazione sulla terza. Lo dico perché, a questo punto, abbiamo ancora molta strada da fare.
Diciamo che a questa terza lista di persone possiamo ricondurre almeno due tipi umani: coloro che tirano a campare, sapendo che gli uomini non sono né buoni né cattivi, e coloro che sognano di cambiare il mondo, e si illudono che gli uomini sia più buoni che cattivi.
I primi saranno anche i più intelligenti; i secondi, sicuramente meno, ma sono quelli che amo di più.
Personalmente li amo perché sognano contro l’evidenza, perché non si arrendono davanti alle miserie umane, perché sono ingenui quando tutti sono scaltri e sono svegli quando tutti dormono.
Certo, sono la minoranza e sono la minoranza che quasi sempre perde. Ma, chissà, “avere un sogno” è quello che rende il futuro possibile e la politica qualcosa di bello.
A cercare e cercare, ne troveremo sicuramente pochi nella congerie delle liste elettorali e fra i candidati. Ma se nella difficile selezione ne rimarrà anche solo uno, uno soltanto, per quanto mi riguarda sarà valsa la pena.
E per la comunità cittadina, la democrazia rappresenterà ancora una volta la migliore speranza.
Giampietro Pizzo
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sabato 20 febbraio 2010
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domenica 17 gennaio 2010
Domenica 24 gennaio: un’occasione per la democrazia cittadina
Senza enfasi, ma dobbiamo dirlo: il 24 gennaio alle primarie per il centro-sinistra abbiamo tutti un’occasione per rimettere in gioco la democrazia cittadina.
I tre candidati alle primarie sono sotto gli occhi di tutti.
Giorgio Orsoni non viene dal basso ma dall’alto – un alto che ha odore di poteri forti e di un candidato voluto senza mezzi termini da un sindaco uscente che, nonostante abbia da tempo detto di non volere continuare a far politica, la fa eccome, segnando, fra l’altro, in modo negativo, il futuro della città (parliamo, ad esempio, di come ha imposto la sua decisione su Tessera).
Laura Fincato è, senz’altro, una donna competente e coraggiosa; ma prima di pensare a una sua candidatura come sindaco avrebbe almeno dovuto saltare un turno: è legata mani e piedi a questa Amministrazione (lei stessa responsabilmente lo rivendica). E, a dirla tutta, chi l’appoggia non è proprio il “nuovo”.
Infine, Gianfranco Bettin.
Fondamente è stato fra i promotori del programma per la città e della sua candidatura e lo è, con forza, ora che si tratta di scegliere il nome del candidato sindaco.
Perché abbiamo scelto Bettin?
Innanzitutto, perché si è messo in gioco, guardando in faccia i problemi della città e l’urgenza che tutti avvertiamo che bisogna cambiare davvero. Poi, perché ha scelto di dialogare senza mediazioni con la società civile, sapendo e riconoscendo quanto sia oggi in crisi la politica dei partiti, quanto sia urgente mettere la parola fine a una politica di pochi, che litigano davanti ai microfoni e che si mettono d’accordo dietro il sipario pochi istanti dopo.
Bettin ha deciso di ascoltare quello che i veneziani dicono sulla loro città; ascolta e dice cosa ne pensa: su Tessera, su Marghera, sulla mobilità, sulla green economy e su un’Amministrazione Pubblica che non può continuare a delegare ai privati le decisioni e le scelte che riguardano la città.
Abbiamo scelto Bettin, perché sa di non essere un “salvatore della Patria” ma parte di uno sforzo collettivo per ricostruire la credibilità della politica, l’onestà della cosa pubblica, la trasparenza dell’amministrare.
Abbiamo davanti un’occasione per ricostruire la dimensione cittadina e la democrazia locale. Senza deleghe in bianco; senza prestanome, eletti per conto di chi e di cosa non si sa.
Le primarie di domenica prossima saranno un banco di prova, perché Venezia ritrovi il posto della Politica: un luogo aperto, dove tutti possano dire la propria e vedere quello che gli amministatori fanno.
Le primarie di domenica prossima sono un’occasione: per avere un progetto per la città credibile e percorribile; un progetto alternativo alle idiozie, agli egoismi, alle insufficienze di una destra rozza e volgare che pensa alla propria pancia e non si rende conto che “fuori” produce solo “scoasse” e barbarie.
Questa è una città che ha le intelligenze e la volontà per costruire il proprio futuro: un futuro aperto, equo e sostenibile.
Fondamente - Gruppo di cultura politica
I tre candidati alle primarie sono sotto gli occhi di tutti.
Giorgio Orsoni non viene dal basso ma dall’alto – un alto che ha odore di poteri forti e di un candidato voluto senza mezzi termini da un sindaco uscente che, nonostante abbia da tempo detto di non volere continuare a far politica, la fa eccome, segnando, fra l’altro, in modo negativo, il futuro della città (parliamo, ad esempio, di come ha imposto la sua decisione su Tessera).
Laura Fincato è, senz’altro, una donna competente e coraggiosa; ma prima di pensare a una sua candidatura come sindaco avrebbe almeno dovuto saltare un turno: è legata mani e piedi a questa Amministrazione (lei stessa responsabilmente lo rivendica). E, a dirla tutta, chi l’appoggia non è proprio il “nuovo”.
Infine, Gianfranco Bettin.
Fondamente è stato fra i promotori del programma per la città e della sua candidatura e lo è, con forza, ora che si tratta di scegliere il nome del candidato sindaco.
Perché abbiamo scelto Bettin?
Innanzitutto, perché si è messo in gioco, guardando in faccia i problemi della città e l’urgenza che tutti avvertiamo che bisogna cambiare davvero. Poi, perché ha scelto di dialogare senza mediazioni con la società civile, sapendo e riconoscendo quanto sia oggi in crisi la politica dei partiti, quanto sia urgente mettere la parola fine a una politica di pochi, che litigano davanti ai microfoni e che si mettono d’accordo dietro il sipario pochi istanti dopo.
Bettin ha deciso di ascoltare quello che i veneziani dicono sulla loro città; ascolta e dice cosa ne pensa: su Tessera, su Marghera, sulla mobilità, sulla green economy e su un’Amministrazione Pubblica che non può continuare a delegare ai privati le decisioni e le scelte che riguardano la città.
Abbiamo scelto Bettin, perché sa di non essere un “salvatore della Patria” ma parte di uno sforzo collettivo per ricostruire la credibilità della politica, l’onestà della cosa pubblica, la trasparenza dell’amministrare.
Abbiamo davanti un’occasione per ricostruire la dimensione cittadina e la democrazia locale. Senza deleghe in bianco; senza prestanome, eletti per conto di chi e di cosa non si sa.
Le primarie di domenica prossima saranno un banco di prova, perché Venezia ritrovi il posto della Politica: un luogo aperto, dove tutti possano dire la propria e vedere quello che gli amministatori fanno.
Le primarie di domenica prossima sono un’occasione: per avere un progetto per la città credibile e percorribile; un progetto alternativo alle idiozie, agli egoismi, alle insufficienze di una destra rozza e volgare che pensa alla propria pancia e non si rende conto che “fuori” produce solo “scoasse” e barbarie.
Questa è una città che ha le intelligenze e la volontà per costruire il proprio futuro: un futuro aperto, equo e sostenibile.
Fondamente - Gruppo di cultura politica
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sabato 9 gennaio 2010
Il senso della Politica
Stasera, all’incontro di Favaro sul Quadrante di Tessera, ho pensato e ho sentito quanto la politica sia importante nella nostra vita.
Non è retorica. Non è esagerazione.
Molti anni fa – era il 1984 – in una calda serata di giugno, un signore, minuto e secco, lasciava, a tutti coloro che erano in quella piazza e ai molti che lo avrebbero rivisto, nei giorni successivi, sui giornali e per televisione, e ancora, negli anni a venire, nei mille documentari che hanno riprodotto e narrato quel momento, un messaggio: “la politica è qualcosa per cui vale la pena di spendere la propria vita”.
Sembra retorica, oggi, dire questo. Sembra esagerato, quasi falso, banalmente mediatico, oggi, dire questo. Eppure, quella sera – e nessuno di noi, ventenni, che eravamo in quella piazza poteva davvero immaginare che si trattasse di un testamento ideale – tornando a Venezia, ci interrogammo sul senso di quelle parole.
Parole dette da un uomo sulla sessantina, che ci era sempre apparso secco, quasi arido nel parlare. Un po’ burocrate nell'aspetto; senz’altro un funzionario di partito.
Chissà perché ricordo ora quel momento, che ha segnato la mia biografia e la storia di questo nostro amato e difficile Paese?
Ma no – mi è chiaro - lo ricordo perché oggi ho avvertito, fra la tanta gente che affollava la piccola sala del consiglio del Municipio di Favaro, un sentimento collettivo autentico e non banale.
Ho sentito che la Politica è fatto collettivo; è energia di molti dedicata al bene comune; è capacità di ragionare sulle scelte del presente guardando al futuro; è senso pratico e organizzato di sapere che le Istituzioni siamo noi cittadini, nel bene e nel male.
Non sono un ingenuo. E insisto: tutto questo non è trita retorica.
A Favaro, questa sera, abbiamo ragionato di procedure, di varianti urbanistiche, di destinazione d’uso. Cose tecniche ed aride – direbbero i più. Eppure, negli occhi di chi ascoltava e di chi parlava, non trapelava né noia né “professione”. Era passione ed interesse per la nostra vita cittadina e comune.
Se penso a cosa dovrebbe e dovrà essere la nuova e buona Politica, oggi penso a questo. E’ partecipazione; è controllo sociale; è informazione responsabile; è pragmatico senso del vivere in società. E’ fare comunità dentro e fuori delle istituzioni pubbliche (luoghi riappropriati, non delegati, rivissuti).
Se penso a cosa dovrebbe e dovrà essere la nuova e buona Politica, stasera penso a quella piazza di Padova, nel 1984, e a quell’uomo, che ha segnato la mia vita e la vita di tanti come me.
Giampietro
Non è retorica. Non è esagerazione.
Molti anni fa – era il 1984 – in una calda serata di giugno, un signore, minuto e secco, lasciava, a tutti coloro che erano in quella piazza e ai molti che lo avrebbero rivisto, nei giorni successivi, sui giornali e per televisione, e ancora, negli anni a venire, nei mille documentari che hanno riprodotto e narrato quel momento, un messaggio: “la politica è qualcosa per cui vale la pena di spendere la propria vita”.
Sembra retorica, oggi, dire questo. Sembra esagerato, quasi falso, banalmente mediatico, oggi, dire questo. Eppure, quella sera – e nessuno di noi, ventenni, che eravamo in quella piazza poteva davvero immaginare che si trattasse di un testamento ideale – tornando a Venezia, ci interrogammo sul senso di quelle parole.
Parole dette da un uomo sulla sessantina, che ci era sempre apparso secco, quasi arido nel parlare. Un po’ burocrate nell'aspetto; senz’altro un funzionario di partito.
Chissà perché ricordo ora quel momento, che ha segnato la mia biografia e la storia di questo nostro amato e difficile Paese?
Ma no – mi è chiaro - lo ricordo perché oggi ho avvertito, fra la tanta gente che affollava la piccola sala del consiglio del Municipio di Favaro, un sentimento collettivo autentico e non banale.
Ho sentito che la Politica è fatto collettivo; è energia di molti dedicata al bene comune; è capacità di ragionare sulle scelte del presente guardando al futuro; è senso pratico e organizzato di sapere che le Istituzioni siamo noi cittadini, nel bene e nel male.
Non sono un ingenuo. E insisto: tutto questo non è trita retorica.
A Favaro, questa sera, abbiamo ragionato di procedure, di varianti urbanistiche, di destinazione d’uso. Cose tecniche ed aride – direbbero i più. Eppure, negli occhi di chi ascoltava e di chi parlava, non trapelava né noia né “professione”. Era passione ed interesse per la nostra vita cittadina e comune.
Se penso a cosa dovrebbe e dovrà essere la nuova e buona Politica, oggi penso a questo. E’ partecipazione; è controllo sociale; è informazione responsabile; è pragmatico senso del vivere in società. E’ fare comunità dentro e fuori delle istituzioni pubbliche (luoghi riappropriati, non delegati, rivissuti).
Se penso a cosa dovrebbe e dovrà essere la nuova e buona Politica, stasera penso a quella piazza di Padova, nel 1984, e a quell’uomo, che ha segnato la mia vita e la vita di tanti come me.
Giampietro
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