mercoledì 13 ottobre 2010

Meno tasse, più imposte

Il federalismo fiscale è ormai alle porte. E mentre la Lega canta vittoria, molti cittadini si interrogano su quale sarà l’effettivo impatto sulla loro condizione economica e sociale.
Lo slogan “meno tasse per tutti” è ormai più un luogo comune del teatrino della politica che una reale opzione amministrativa. Il federalismo fiscale aveva, al riguardo, creato inizialmente molte aspettative. Ora le cose cominciano a rivelarsi per quello che sono: il passaggio di competenze agli Enti Locali avverrà senza un’adeguata copertura finanziaria e stante la situazione di grave crisi della finanza pubblica, le Regioni e i Comuni saranno obbligati a introdurre nuovi balzelli e nuove tasse per far quadrare i conti.
Di fronte a questa situazione, bisognerà mettere da parte gli slogan e fare finalmente sul serio. Fare sul serio significa, ad esempio, porre con chiarezza il tema delle entrate tributarie.
Per cominciare, è bene che i cittadini sappiano di cosa si sta parlando.
Ciò che quotidianamente chiamiamo “tasse”, corrisponde, in realtà, a due categorie tributarie radicalmente diverse: le imposte, da un lato, e le tasse e vere e proprie, dall’altro. Non si tratta di introdurre capziosi distinguo accademici ma di rendere evidente qual è la sostanziale differenza tra i due strumenti di prelievo fiscale.
Le tasse sono il prezzo che i cittadini pagano per un servizio pubblico: sono tasse quelle sui rifiuti, sul traffico portuale e aeroportuale, etc.
In realtà, sempre più, per alcuni servizi pubblici quantificabili, alle tasse vere e proprie si vanno sostituendo sistemi specifici di tariffazione (è questo il caso, ad esempio, dei rifiuti).
Le imposte invece sono un tributo non legato a uno specifico servizio pubblico; costituiscono un prelievo generale per far fronte alla spesa pubblica. Come recita l’articolo 53 della nostra Costituzione: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.”
Di questo criterio di progressività, basato sul principio “chi più ha, più paga”, nessuno oggi sembra volersi ricordare. Le “tasse” hanno dunque prevalso oltre che nell’uso linguistico anche nella pratica politica.
Ecco allora che di fronte alla crisi della finanza locale, la risposta più immediata e automatica è: aumentiamo tasse e tariffe.
E’ successo, a Venezia, pochi mesi fa, con le tariffe del trasporto pubblico e sembra destinato a succedere a breve per i rifiuti, le mense scolastiche e per tanti altri servizi pubblici essenziali. In questo modo, l’iniquità è palese: tutti pagano lo stesso contributo, sia che si tratti di un disoccupato o di uno studente, sia che si tratti di un ricco possidente. L’effetto è chiaramente regressivo perché il sacrificio per chi ha un reddito modesto e un bisogno incomprimibile è di gran lunga più elevato di chi ha redditi alti e beneficia, in alternativa, di servizi privati (il caso più emblematico è la sanità).
Per riaffermare un minimo di giustizia fiscale, dobbiamo tornare a parlare di imposte. E’ noto a tutti che gli Enti Locali non hanno “autonomia impositiva”, ma questi dovranno, volenti o nolenti, ottenerla se non vorranno dichiarare fallimento. In primis, l’addizionale IRPEF. Ma non basta. Occorrono un’imposta sui fabbricati e una sui grandi patrimoni. E a Venezia ce n’è bisogno più che altrove, perché questa città non può essere trattata alla stregua di una mucca da mungere, peraltro particolarmente debilitata, dove coloro che ne traggono il massimo beneficio non si preoccupano affatto se riesce a nutrirsi a sufficienza!
I francesi ricordano spesso che fu per una diversa giustizia fiscale che fecero la rivoluzione del ’89. Presso i cugini d’oltralpe, diritti individuali e doveri cittadini costituiscono l’architettura stessa del farsi comunità. Per questa ragione, in Francia pagare le imposte è parte essenziale dell’essere cittadino. La storia italiana è un’altra: senza vere rivoluzioni e con molte mediazioni. Eppure abbiamo bisogno degli stessi materiali per ricostruire un patto fiduciario tra i cittadini; un new deal che ci consenta di uscire dal pantano in cui ci troviamo.
E’ tempo che i cantori del liberismo smettano di predicare che con la crescita le entrate pubbliche torneranno ad aumentare, perché non c’è sviluppo laddove non vi è il minimo per preparare il futuro. Un minimo che si chiama scuola, sanità, manutenzione delle infrastrutture esistenti, trasporti efficienti, etc.
Perché, per sfatare un altro luogo comune, da un pezzo, nel nostro bel Paese, non paga più Pantalone ma semmai il povero Arlecchino. E’ ora di cambiare copione.

Giampietro Pizzo

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