mercoledì 27 febbraio 2008

La balcanizzazione dell’Europa

E’ incredibile come la nostra attenzione mediatica possa essere distratta.
La “lunga guerra” balcanica continua e si aggrava a pochi passi da qui, ma anche gli eventi più drammatici sembrano lontani e irrilevanti per i giornali e per il dibattito politico italiani.
Eppure la dichiarazione unilaterale d’indipendenza del Kosovo peserà moltissimo sull’Italia e sull’Europa.
Pesa e peserà su un’Europa che è ormai l’ombra di sé stessa. Un’Europa priva di significato economico e sociale per i cittadini europei e per quelli che potrebbero domani diventarlo; un’Europa – ed è questo che davvero brucia - senza uno straccio di progetto politico.
“Ognuno per proprio conto” – questo è ormai il motto con cui in Europa si fa politica estera. E mentre in Italia D’Alema dice sì, nella socialista Spagna Zapatero dice no. Nessuno si straccia le vesti ma neppure si sorprende. Sono passati dieci anni dai bombardamenti su Belgrado e ci ritroviamo ancora nello stesso clima di guerra e di odio.
Dov’è dunque finito quel grande e nobile progetto per una Europa di pace e benessere che entusiasmò molti di noi solo pochi anni fa? Sepolto, a quanto pare, sotto cumuli di insipienza, di indifferenza, di falso realismo politico; il tutto condito in una mediocre salsa americana.
Ma che cosa potrà davvero essere il Kosovo indipendente? Un micro Stato accanto ad altri micro Stati. Così fu per la Bosnia dilaniata da una guerra fratricida, così è per quella “terra di nessuno”, divenuta indipendente l’anno scorso, chiamata Montenegro.
Senza tema di essere tacciati come filoserbi, si tratta di riconoscere semplicemente che il Kosovo indipendente è il frutto di una decisione americana, sostenuta e amplificata da anni d’inerzia diplomatica europea.
Il Kosovo è indipendente ma non sarà mai indipendente. No, non è un bisticcio di parole, perché alla dichiarazione politica si accompagna – e tutti lo sanno – l’impossibilità per quel paese di essere economicamente e finanziariamente autosufficiente. Uno Stato coloniale destinato a un eterno sussidio europeo e internazionale.
Bisogna, in questo frangente, ricordare che la responsabilità della ricostruzione è stata in questi anni delegata all'ONU, e il risultato è uno Stato in mano alla criminalità: 'It is a Mafia society', dicono fonti autorevoli. Il potere se lo sono preso le bande armate, grazie alla protezione offerta dagli Stati Uniti. Per il Pentagono uno stato debole ha due vantaggi: assicura la piena extraterritorialità delle basi militari e consente alle forze occupanti di comportarsi come dei fuorilegge.
Il triste bilancio del Kosovo è di essere diventato in questi anni di “protettorato” americano ed europeo, il crocevia di una florida economia del narcotraffico, così come il Montenegro lo è da tempo del contrabbando e dei traffici illegali di armi.
Dall’altra parte della frontiera – che noi europei abbiamo contribuito a tracciare - vi è una crescente indifferenza nei confronti del dramma serbo.
Una nazione, la Serbia, smembrata e sbeffeggiata a più riprese, senza che nessuno misurasse sino in fondo la portata storica di tale condotta. Eppure la Storia insegna che quando si alimentano odî e rancori, si preparano inesorabilmente i conflitti e le guerre di domani.
L’Europa vista dai Balcani non lascia purtroppo sperare nulla di buono.
Una cosa è certa: l’Italia rischia di perdere un amico, mentre aumentano, da una parte e dall’altra dell’Adriatico, la confusione e i dissidi.
Vale la pena di ricordare, infine, che dinnanzi allo spettro della secessione nessuno è immune.
In questi giorni l’Italia e l’Europa – con la sola eccezione della Spagna - hanno contribuito a creare un terribile precedente.
E se domani qualcuno dichiarasse unilateralmente l’indipendenza basca o padana, chi oserebbe argomentare l’inconsistenza di un simile atto politico?

Giampietro Pizzo

giovedì 14 febbraio 2008

Fare società

“Fare società” non è solo una felice espressione coniata da Aldo Bonomi per descrivere la domanda che viene alla Politica dal territorio italiano.
Fare società è, prima ancora, la volontà che esprime chi, ora, in Italia, non vuole arrendersi alla dissoluzione della Politica.
Ma la Politica vive se il legame sociale torna ad essere il nesso fondatore del nostro esistere come cittadini in questo Paese e in questo tempo.
La Politica non muore se l’individualismo proprietario non azzera la grande tradizione italiana del vivere insieme.
Di fronte al tentativo di cancellazione del produttore e alla solitudine del consumatore, occorre ritrovare – sperimentando e innovando – una dimensione collettiva.
Se, come appare chiaro, l’individuo è impotente, allora la risposta non può che essere collettiva.
La libertà individuale non ha futuro senza pratiche autentiche di solidarietà, senza dispositivi che sappiano davvero garantire e valorizzare le scelte individuali. Non ci sono diritti difendibili senza autentiche eguaglianze civili e sociali.
Da questo occorre ricominciare per rendere operabile un progetto politico che “faccia società”.
Vano è credere che possa essere il Mercato il luogo dove le libertà e le uguali opportunità si affermano e crescono. Del resto, è chiaro a tutti che quando entra in scena il Mercato, il mercato globale, pressoché nulla di rilevante sul piano sociale e dei diritti è decidibile: sono sempre e solo i vincoli esterni della competitività e della credibilità internazionale a decidere al posto della Politica. Se questo è il progetto che, tanto a destra che al centro, il PdL e il PD vanno partorendo, allora l’unico spazio residuale è quello amministrativo-gestionale, con buona pace della Politica. Il mantra delle privatizzazioni e del contenimento della sfera pubblica non potrà che spianare la strada a questo riduzionismo politico. Ma davvero è pensabile che questo sia l’unico scenario?
Io, invece, voglio che il Pubblico rappresenti ancora un orizzonte possibile in cui costruire diritti e socialità. Un Pubblico come valore ancor prima che come tecnica di governo.
Deve essere questa – non altra – la forza, il sogno di una Sinistra degna di questo nome.
Ma, innanzitutto, il “voglio” deve diventare “vogliamo”. Per questo occorre ricostruire una dimensione autentica di linguaggio, di azione collettiva che sia capace di generare fiducia, di passione e progetto per tutti, di visione e di fare per ognuno.

Giampietro Pizzo