giovedì 20 febbraio 2014

Se un'altra Europa è possibile


Le società europee versano in una condizione di gravissima sofferenza.
Le nostre comunità soffrono perché troppi cittadini non hanno più un lavoro – né stabile né precario - e non hanno un reddito sufficiente per far fronte ai propri bisogni quotidiani. Soffrono perché le nostre città sono sempre più tristi e brutte, perché la paura del prossimo e del futuro vince spesso su ogni altro sentimento. Perché lo stare insieme, in società, sembra essere troppo spesso un male da arginare invece che un valore e una condizione su cui investire.

Uno stato delle cose che, in sintesi, è drammatico, per la condizione sociale, economica e culturale in cui vivono decine di milioni di cittadini europei, soprattutto nel sud dell’Europa, ma che coinvolge sempre più paesi reputati come “forti”: Francia, Germania,  Inghilterra.

Eppure ciò che rende ancor più drammatica la nostra condizione di europei è  che nessuno sembra potere e sapere immaginare come uscire da questa crisi decennale,  da questa che è la più grave crisi dalla fine della seconda Guerra Mondiale.

Contro e nonostante i tanti predicatori del fare facile, della risposta immediata e risolutoria, quello di cui forse abbiamo un impellente bisogno è di capire. Capire quello che è successo, perché è successo e quali sono i nodi, le questioni essenziali da affrontare: da risolvere.

La Storia ufficiale che ci è stata raccontata è questa: un pezzo dell’Europa è governata male, con democrazie esposte alle facili promesse, preda di molteplici interessi tra loro incompatibili, e alla cui logica tutti si sono piegati, piccoli e grandi; questa vulnerabilità si è inevitabilmente tradotta in un mare di debiti e di sprechi a compensare le inefficienze del Pubblico e i ritardi della Politica.
Prima o poi, dunque, secondo questa "narrazione", i nodi sono destinati a venire al pettine: i debiti pubblici o privati vanno pagati e per farlo occorre una cura dimagrante, con meno spese pubbliche e più privatizzazioni, per far ripartire l’economia, il lavoro, eccetera eccetera. Pazienza, ci dicono gli “gnomi” a Bruxelles, a Francoforte o a Roma, se questo vuol dire rinunciare, per qualche decennio,  a servizi pubblici ai quali ci siamo abituati e che davamo per scontati: Salute, Istruzione e Previdenza.

Inettitudine e Corruzione sarebbero insomma alle origini dei mali dell’Europa mediterranea, di quei paesi dal nome così evocativo: PIGS.

Ma questa narrazione storica è credibile? Le cose stanno davvero così?

Se la risposta è sì, la strada che si sta seguendo in Grecia sarebbe quella giusta. Se la risposta è sì, ognuno è chiamato a “fare i compiti a casa”, senza lamentarsi troppo e sapendo che, alla fine, “i conti torneranno a posto”. E’ questa la lezione adottata da Monti in Italia, da Samaras in Grecia,  da Rajoy in Spagna, eccetera. E’ questo l’ordine europeo del cosiddetto “fiscal compact” che, applicato all’Italia, significa: ogni anno abbattere il debito pubblico nazionale di circa 50 miliardi (cioè meno spesa pubblica per Sanità, Scuola, servizi sociali per un valore corrispondente) per 22 anni, sino a raggiungere il mitico e indiscutibile obiettivo di un debito inferiore al 60% della produzione nazionale (se poi, a causa di queste misure, il PIL si riduce e il debito non scende, ancora pazienza!, e dovremmo aggiungere ulteriori misure di riduzione e taglio per un numero supplementare e indefinito di anni). Poco importa se questo provvedimento getta alle ortiche conquiste essenziali della civiltà europea (sistemi di welfare che il Mondo ci invidia, un patrimonio culturale da “manutenere” e difendere, una cultura della solidarietà e dell’accoglienza, etc.) o rinnega importanti decisioni prese pochi anni fa (come la Strategia di Lisbona che puntava sulla costruzione della migliore economia della conoscenza con l’obiettivo di almeno un 3% del PIL di ogni Stato membro investito in ricerca e sapere).

Del resto, recitano da più parti gli stessi “gnomi” di cui sopra: non è possibile che la virtuosa Germania possa sopportare il peso delle pigrizie mediterranee, né che si metta a repentaglio l’intera stabilità monetaria e finanziaria europea!

Eppure vi è anche un’Altra Storia, un altro modo di leggere e raccontare quanto è accaduto nel nostro continente negli ultimi venticinque anni.
Questa Storia ci dice che l’Europa “virtuosa”, la rinomata locomotiva tedesca, ha fondato il proprio formidabile sistema economico-finanziario su un meccanismo di divisione dell’Europa in due macro-regioni: un’Europa destinata a produrre beni e servizi e una seconda Europa, minore e marginale, chiamata a consumare quello che la prima produce.

Per rendere effettiva e irreversibile questa divisione del lavoro tra produttori e consumatori - specializzazione applicata del resto anche in altre aree del Pianeta (pensate alla relazione commerciale e debitoria tra Cina e USA) -, occorrevano determinati strumenti di politica economica.
La politica economica prescelta è stata quella monetaria e lo strumento numero uno è stato proprio l’Euro.

L’introduzione dell’Euro – con quelle parità di cambio tra le vecchie monete nazionali fissate nel 2000; nel nostro caso 1.936 lire per un’unità della nuova moneta unica - ha permesso negli ultimi quindici anni all’economia tedesca di far crescere in modo considerevole le proprie esportazioni interne al mercato europeo; nel contempo, specularmente, a causa di una generalizzata perdita di competitività monetaria, gli Stati dell’Europa latina e greca hanno inesorabilmente peggiorato la loro bilancia commerciale, importando sempre di più ed esportando sempre di meno.

In un primo tempo quello squilibrio commerciale è stato compensato da un crescente indebitamento nazionale nei confronti delle grandi banche europee (in primis, verso quelle tedesche o di altri gruppi finanziari multinazionali). Un meccanismo che faceva contenti tanto gli industriali tedeschi che i grandi gruppi bancari alla ricerca di stati nazionali[1]  su cui collocare le eccedenze finanziarie prodotte dai surplus commerciali.

Poi, ecco il 2008: la crisi finanziaria internazionale ha messo a nudo l’inconsistenza e la precarietà di quel modello economico europeo. L’urgente necessità delle banche internazionali, esposte su molti fronti, di qua e di là dell’Atlantico, di tamponare le perdite di portafoglio riducendo le loro esposizioni creditizie, ha innescato quella crisi del debito pubblico greco, spagnolo e italiano che tutti abbiamo vissuto.
Quella stessa solerzia con cui i gruppi finanziari si erano prodigati a comprare titoli di Stato dei PIGS si traduceva ora in un’arrogante richiesta di smobilizzo immediato.

Per risanare i bilanci delle banche occorreva da parte tedesca recuperare le proprie esposizioni  nei confronti dei Paesi che avevano comprato per decenni beni e servizi dall’Europa “virtuosa”, e che virtuosa non sarebbe stata senza quel mercato europeo.
Ecco qual è l’origine del rialzo dei tassi d’interesse e del successivo tormentone sullo spread tra Bund tedeschi e BOT italiani, spagnoli e greci.

Il resto è storia recente, una storia amara fatta di pesanti tagli sulla spesa pubblica, su dismissioni industriali e su lunghe liste di privatizzazioni. Non solo un welfare fatto a pezzi e ormai moribondo, ma un intero sistema industriale liquidato e fortemente ridimensionato. Un dato per tutti: dal 2008 al 2013, l’Italia ha registrato un calo del 25% della propria produzione industriale: un quarto dell’intera industria nazionale è letteralmente scomparso. Fenomeni che accentuano, invece di ridurre, gli squilibri, in una corsa sfrenata verso un’efficienza che si trasforma altresì in inedia, povertà e sperpero di uno storico patrimonio industriale e tecnico.

Come e su che cosa dovrebbe poi risorgere l’economia italiana e mediterranea, dopo aver liquidato intere filiere industriali e mandato al macero il talento artigiano e lo spirito imprenditoriale diffuso di più nazioni? E ancora, su cosa, dopo aver ridotto al lumicino il potere d’acquisto dei lavoratori e debilitato fatalmente la domanda per il mercato interno?

Ma se le cose stanno davvero così, e allo stato attuale non vi sono dati che possano ragionevolmente contraddire e negare questa lettura dei fatti, allora la domanda per il futuro dell’Europa è una sola: com’è possibile rimettere sui binari l’economia europea senza cambiare radicalmente questo modello di produzione, socialmente e territorialmente squilibrato? Come risolvere un dualismo economico che ci rende più simili a paesi sottosviluppati con enormi disuguaglianze sociali che ai paesi europei di trent’anni fa?

Una disuguaglianza che si è alimentata su questo modo bipolare di intendere l’Europa, sacrificando strutturalmente i redditi da lavoro per concentrare sempre più la ricchezza in poche mani, è chiaramente un modello insostenibile. Ed è proprio questa bipartizione tra paesi esportatori e paesi importatori all’interno del mercato europeo che ha favorito e reso permanente la crescente polarizzazione tra capitale e lavoro, tra rendita e salario.

Cambiare dunque il modello economico europeo, caratterizzato da questa assurda divisione delle funzioni economiche produzione/consumo, è senza dubbio la priorità.
Del resto, più si concentrano le ricchezze e i patrimoni in poche mani (pochi Paesi, pochi gruppi economico-finanziari e, infine, pochi individui) più l’economia soffre (ecco il dilagare della disoccupazione di massa), e più soffrono la Società e la Democrazia.

Qui si ferma questa schematica e forse semplificata lettura del nostro oggi.
Subito dopo può iniziare il dibattito sul che fare, e su come cambiare lo stato delle cose.
E proprio lì inizia il compito della Politica.


Venezia, 19 febbraio 2014

Giampietro Pizzo


[1] Una vecchia storia che puntualmente si ripete. Basta riandare alla gravissima crisi del debito latinoamericano degli anni ’80 per ritrovare la stessa dinamica (in quel caso tra Nord e Sud del Mondo).

Il prof. Giovanni Levi introduce agli ultimi scritti di grande erudizione del prof. Franco Zannini



Fondamente ha organizzato a Venezia presso la casa dei Mori in Campo dei Mori l'incontro con i professori Giovanni Levi e Franco Zannini su 2 pamphlets scritti dallo stesso Franco Zannini avvocato e giurista, ovvero "Marxismo nelle coscienze e nel tempo" e "Archeologia della decisione": ampie analisi su ciò che sta alla base dell'azione e delle scelte anche in politica.
Da una disamina  ed analisi precisa e ricchssima dei classici tra cui Kant, Montesquieu, Platone, Democrito, Isocrate e  Marx ricco di citazioni  e incisi, Franco Zannini trae il suo pensiero che Giovanni Levi definisce in parte pessimista con una quasi totale sfiducia nelle nuove generazioni.
In particolare nella lettura di Marx che può dar adito alla scelta di 2 differenti possibilità,  quella prediletta scelta da Franco nella lettura di Marx è la possibilità riformista.
Una contrapposizione tra quello che si dice in pubblico e quello che si pensa in privato, il  contrasto tra vita pubblica e vita privata è messo in evidenza negli scritti di Franco con piglio critico. A questo proposito per Giovanni Levi il punto centrale su cui si basa il Francopensiero è quella da lui viene denominata psicanalisi forense, unione della psicanalisi e di un “diritto negoziale”: è una relazione fra gli uomini programmata da un diritto negoziale realistico che assume il problema della debolezza della razionalità umana (forse influenze di Pareto delle azioni logiche e non logiche?).
In parole semplici la razionalità umana è ben lungi dall’essere perfetta.
Altro elemento è la sua analisi del dolore che per Franco è, diciamo, immanente e implicito nella società (influenza Freudiana).
Nella società odierna in cui possiamo avere tutto quello che desideriamo almeno dal punto di vista materiale, predomina il desiderio del superfluo.
Realismo contro idealismo, Isocrate contro Platone, sfiducia passiva terza via di uscita da un modello di società che non ci piace, non solo uscita o protesa come alternative.
Levi dice che Franco è molto critico verso questa società
Il tema principale su cui si impernia il volumetto “Archeologia della decisione” è la psicanalisi forense.
Questo pamphlet che mi son letto con attenzione e anche con una certa difficoltà (da leggere e rileggere per raccogliere e legare (leggere dal latino Legere= legare, raccogliere) il senso di quanto afferma questo raffinato "analista" dell'animo umano e di come certe decisioni influenzino in profondità le visioni della società interpretate anche nel diritto e in politica) per seguire le precisissime e dattagliate analisi proposte ricche di citazioni classiche anche dalla più remota letteratura e da fatti storici, è veramente una summa che spiega nei minimi particolari come si addiviene ad una decisione ragionata realmente cosciente e forse giusta! Cito: "Considerare le decisioni umane con l'orgoglio della Ragione sempre e comunque ..omissis..prima ancora che presunzione è soprattutto ...omissis..."una ignobile menzogna". Vengono delineate 5 possibili classificazioni di archeologia della decisione ovvero e qui cito:
"1) la prospettiva di una psicopatologia della vita quotidiana, in una accezione peraltro assai più ampia delle note tesi freudiane in merito,
2) la prospettiva di nevrosi;
3) la prospettiva di psicosi;
4) la decisione tragica;
5) la decisione cosciente."
Considero un buono sforzo fruttuoso e utile per se stessi e per quanto riguarda il nostro modo di agire socialmente e politicamente, leggere sine ira ac studio e con la dovuta attenzione le analisi proposte da Franco Zannini, per poter, attraverso questo generoso contributo, formarsi e sintetizzare il proprio modo di essere e di decidere coscientemente.
Rimando alla videoregistrazione dell'incontro per sentire dalla viva voce di Franco Zannini e dal suo commentatore Giovanni Levi la presentazione dei 2 saggi.
Per chi volesse procurarseli lasci pure un messaggio qui sotto o si rivolga direttamente all'autore.
Cordiali saluti. 
Vito Simi de Burgis 




mercoledì 19 febbraio 2014

Se un’altra Europa è possibile


Le società europee versano in una condizione di gravissima sofferenza.
Le nostre comunità soffrono perché troppi cittadini non hanno più un lavoro – né stabile né precario - e non hanno un reddito sufficiente per far fronte ai propri bisogni quotidiani. Soffrono perché le nostre città sono sempre più tristi e brutte, perché la paura del prossimo e del futuro vince spesso su ogni altro sentimento. Perché lo stare insieme, in società, sembra essere troppo spesso un male da arginare invece che un valore e una condizione su cui investire.

Uno stato delle cose che, in sintesi, è drammatico, per la condizione sociale, economica e culturale in cui vivono decine di milioni di cittadini europei, soprattutto nel sud dell’Europa, ma che coinvolge sempre più paesi reputati come “forti”: Francia, Germania,  Inghilterra.

Eppure ciò che rende ancor più drammatica la nostra condizione di europei è  che nessuno sembra potere e sapere immaginare come uscire da questa crisi decennale,  da questa che è la più grave crisi dalla fine della seconda Guerra Mondiale.

Contro e nonostante i tanti predicatori del fare facile, della risposta immediata e risolutoria, quello di cui forse abbiamo un impellente bisogno è di capire. Capire quello che è successo, perché è successo e quali sono i nodi, le questioni essenziali da affrontare: da risolvere.

La Storia ufficiale che ci è stata raccontata è questa: un pezzo dell’Europa è governata male, con democrazie esposte alle facili promesse, preda di molteplici interessi tra loro incompatibili, e alla cui logica tutti si sono piegati, piccoli e grandi; questa vulnerabilità si è inevitabilmente tradotta in un mare di debiti e di sprechi a compensare le inefficienze del Pubblico e i ritardi della Politica.
Prima o poi, dunque, secondo questa Narrazione, i nodi sono destinati a venire al pettine: i debiti pubblici o privati vanno pagati e per farlo occorre una cura dimagrante, con meno spese pubbliche e più privatizzazioni, per far ripartire l’economia, il lavoro, eccetera eccetera. Pazienza, ci dicono gli “gnomi” a Bruxelles, a Francoforte o a Roma, se questo vuol dire rinunciare, per qualche decennio,  a servizi pubblici ai quali ci siamo abituati e che davamo per scontati: Salute, Istruzione e Previdenza.

Inettitudine e Corruzione sarebbero insomma alle origini dei mali dell’Europa mediterranea, di quei paesi dal nome così evocatorio: PIGS.

Ma questa narrazione storica è credibile? Le cose stanno davvero così?

Se la risposta è sì, la strada che si sta seguendo in Grecia sarebbe quella giusta. Se la risposta è sì, ognuno è chiamato a “fare i compiti a casa”, senza lamentarsi troppo e sapendo che, alla fine, “i conti torneranno a posto”. E’ questa la lezione adottata da Monti in Italia, da Samaras in Grecia,  da Rajoy in Spagna, eccetera. E’ questo l’ordine europeo del cosiddetto “fiscal compact” che, applicato all’Italia, significa: ogni anno abbattere il debito pubblico nazionale di circa 50 miliardi (cioè meno spesa pubblica per Sanità, Scuola, servizi sociali per un valore corrispondente) per 22 anni, sino a raggiungere il mitico e indiscutibile obiettivo di un debito inferiore al 60% della produzione nazionale (se poi, a causa di queste misure, il PIL si riduce e il debito non scende, ancora pazienza!, e dovremmo aggiungere ulteriori misure di riduzione e taglio per un numero supplementare e indefinito di anni). Poco importa se questo provvedimento getta alle ortiche conquiste essenziali della civiltà europea (sistemi di welfare che il Mondo ci invidia, un patrimonio culturale da “manutenere” e difendere, una cultura della solidarietà e dell’accoglienza, etc.) o rinnega importanti decisioni prese pochi anni fa (come la Strategia di Lisbona che puntava sulla costruzione della migliore economia della conoscenza con l’obiettivo di almeno un 3% del PIL di ogni Stato membro investito in ricerca e sapere).

Del resto, recitano da più parti gli stessi “gnomi” di cui sopra: non è possibile che la virtuosa Germania possa sopportare il peso delle pigrizie mediterranee, né che si metta a repentaglio l’intera stabilità monetaria e finanziaria europea!

Eppure vi è anche un’Altra Storia, un altro modo di leggere e raccontare quanto è accaduto nel nostro continente negli ultimi venticinque anni.
Questa Storia ci dice che l’Europa “virtuosa”, la rinomata locomotiva tedesca, ha fondato il proprio formidabile sistema economico-finanziario su un meccanismo di divisione dell’Europa in due macro-regioni: un’Europa destinata a produrre beni e servizi e una seconda Europa, minore e marginale, chiamata a consumare quello che la prima produce.

Per rendere effettiva e irreversibile questa divisione del lavoro tra produttori e consumatori - specializzazione applicata del resto anche in altre aree del Pianeta (pensate alla relazione commerciale e debitoria tra Cina e USA) -, occorrevano determinati strumenti di politica economica.
La politica economica prescelta è stata quella monetaria e lo strumento numero uno è stato proprio l’Euro.

L’introduzione dell’Euro – con quelle parità di cambio tra le vecchie monete nazionali fissate nel 2000; nel nostro caso 1.936 lire per un’unità della nuova moneta unica - ha permesso negli ultimi quindici anni all’economia tedesca di far crescere in modo considerevole le proprie esportazioni interne al mercato europeo; nel contempo, specularmente, a causa di una generalizzata perdita di competitività monetaria, gli Stati dell’Europa latina e greca hanno inesorabilmente peggiorato la loro bilancia commerciale, importando sempre di più ed esportando sempre di meno.

In un primo tempo quello squilibrio commerciale è stato compensato da un crescente indebitamento nazionale nei confronti delle grandi banche europee (in primis, verso quelle tedesche o di altri gruppi finanziari multinazionali). Un meccanismo che faceva contenti tanto gli industriali tedeschi che i grandi gruppi bancari alla ricerca di stati nazionali[1]  su cui collocare le eccedenze finanziarie prodotte dai surplus commerciali.

Poi, ecco il 2008: la crisi finanziaria internazionale ha messo a nudo l’inconsistenza e la precarietà di quel modello economico europeo. L’urgente necessità delle banche internazionali, esposte su molti fronti, di qua e di là dell’Atlantico, di tamponare le perdite di portafoglio riducendo le loro esposizioni creditizie, ha innescato quella crisi del debito pubblico greco, spagnolo e italiano che tutti abbiamo vissuto.
Quella stessa solerzia con cui i gruppi finanziari si erano prodigati a comprare titoli di Stato dei PIGS si traduceva ora in un’arrogante richiesta di smobilizzo immediato.

Per risanare i bilanci delle banche occorreva da parte tedesca recuperare le proprie esposizioni  nei confronti dei Paesi che avevano comprato per decenni beni e servizi dall’Europa “virtuosa”, e che virtuosa non sarebbe stata senza quel mercato europeo.
Ecco qual è l’origine del rialzo dei tassi d’interesse e del successivo tormentone sullo spread tra Bund tedeschi e BOT italiani, spagnoli e greci.

Il resto è storia recente, una storia amara fatta di pesanti tagli sulla spesa pubblica, su dismissioni industriali e su lunghe liste di privatizzazioni. Non solo un welfare fatto a pezzi e ormai moribondo, ma un intero sistema industriale liquidato e fortemente ridimensionato. Un dato per tutti: dal 2008 al 2013, l’Italia ha registrato un calo del 25% della propria produzione industriale: un quarto dell’intera industria nazionale è letteralmente scomparso. Fenomeni che accentuano, invece di ridurre, gli squilibri, in una corsa sfrenata verso un’efficienza che si trasforma altresì in inedia, povertà e sperpero di uno storico patrimonio industriale e tecnico.

Come e su che cosa dovrebbe poi risorgere l’economia italiana e mediterranea, dopo aver liquidato intere filiere industriali e mandato al macero il talento artigiano e lo spirito imprenditoriale diffuso di più nazioni? E ancora, su cosa, dopo aver ridotto al lumicino il potere d’acquisto dei lavoratori e debilitato fatalmente la domanda per il mercato interno?

Ma se le cose stanno davvero così, e allo stato attuale non vi sono dati che possano ragionevolmente contraddire e negare questa lettura dei fatti, allora la domanda per il futuro dell’Europa è una sola: com’è possibile rimettere sui binari l’economia europea senza cambiare radicalmente questo modello di produzione, socialmente e territorialmente squilibrato? Come risolvere un dualismo economico che ci rende più simili a paesi sottosviluppati con enormi disuguaglianze sociali che ai paesi europei di trent’anni fa?

Una disuguaglianza che si è alimentata su questo modo bipolare di intendere l’Europa, sacrificando strutturalmente i redditi da lavoro per concentrare sempre più la ricchezza in poche mani, è chiaramente un modello insostenibile. Ed è proprio questa bipartizione tra paesi esportatori e paesi importatori all’interno del mercato europeo che ha favorito e reso permanente la crescente polarizzazione tra capitale e lavoro, tra rendita e salario.

Cambiare dunque il modello economico europeo, caratterizzato da questa assurda divisione delle funzioni economiche produzione/consumo, è senza dubbio la priorità.
Del resto, più si concentrano le ricchezze e i patrimoni in poche mani (pochi Paesi, pochi gruppi economico-finanziari e, infine, pochi individui) più l’economia soffre (ecco il dilagare della disoccupazione di massa), e più soffrono la Società e la Democrazia.

Qui si ferma questa schematica e forse semplificata lettura del nostro oggi.
Subito dopo può iniziare il dibattito sul che fare, e su come cambiare lo stato delle cose.
E proprio lì inizia il compito della Politica.


Venezia, 19 febbraio 2014

Giampietro Pizzo



[1] Una vecchia storia che puntualmente si ripete. Basta riandare alla gravissima crisi del debito latinoamericano degli anni ’80 per ritrovare la stessa dinamica (in quel caso tra Nord e Sud del Mondo).

venerdì 14 febbraio 2014

I consiglieri comunali di Venezia ci raccontano: Sebastiano Bonzio (Rifondazione Comunista), ottavo incontro.



Promosso da Fondamente per la serie "I consiglieri Comunali ci raccontano", il 16 gennaio 2014 presso la Casa dei Mori in Campo dei Mori a Venezia (http://goo.gl/maps/pVUgO ) è stato organizzato l'incontro (l'ottavo della serie) con il consigliere comunale di Venezia Sebastiano Bonzio di Rifondazione Comunista che ci ha raccontato la sua attuale esperienza in Consiglio Comunale con molti particolari e vicende interessanti di cui è stato partecipe e protagonista.
Si consiglia di ascoltare e vedere la videoregistrazione qui di seguito postata per capire il senso della sua attività sino ad oggi e le problematiche insite nella missione di consigliere/amministratore Comunale.