sabato 15 marzo 2008

Più pubblico in un mondo globale

Primo: pensare diversamente.

Quando si parla di globalizzazione e di competitività s’invoca molto spesso: più privato, più concorrenza! Questo è il mantra di chi si occupa di relazioni internazionali e di chi, più banalmente, si mette semplicemente nel coro.

Dalla globalizzazione, ovvero da chi nel mondo produce, investe e consuma a tutto campo, si attendono mille benefici e mille disgrazie.

Chi vede con più facilità i mille benefici, dice agli italiani: rimboccatevi le maniche ed entrate nell’economia mondiale. Da questo nuovo contesto internazionale – continuano gli apologhi dell’internazionalizazione - ne verranno più ricchezza e più opportunità per tutti.
Bello, se fosse vero!

Per chi invece vede in ritardo, ma con roboante retorica, i mali che provengono dai giganti asiatici – da quel moloch, goffamente definito “Cindia” – l’unica salvezza è la barriera protezionistica. Purtroppo questa più che una diga contro l’alta marea cinese, sembra la tardiva costruzione di un’arca di Noé per sopravvivere a un secondo diluvio globale. E se poi le acque non scendessero affatto e ricoprissero ogni cosa per qualche decennio? E se questo fenomeno fosse destinato a durare a lungo? In questo caso, forse l’arca potrebbe essere salva, ma dentro – ahimé - si ritroverebbero soltanto scheletrici cadaveri.

La globalizzazione non è un male in sé; la circolazione transnazionale di beni, capitali e uomini (pochi ancora questi ultimi, a dire il vero!) non è qualcosa di negativo. Anzi la prospettiva della fine delle frontiere, delle barriere, dei muri di ogni tipo, è un grande e nobile sogno dell’umanità.

Il male della globalizzazione ha due genitori: Tempo, il padre e Ingiustizia, la madre.
Tempo, o meglio la mancanza di tempo. E’ questa tremenda accelerazione storica che non consente alle società, alle persone, di attrezzarsi, di costruire strategie di adattamento. 
Quando si vogliono omogeneizzare salari europei e cinesi, quando si ignorano società e culture diverse e ricche, quando si annullano economie e civiltà materiali cresciute separatamente - in nome di una equivalenza universale chiamata Mercato-, allora ecco che pezzi di società e di storia si ribellano contro la violenza di questo processo.
Di fronte alla fisica dei vasi comunicanti, qualcuno deve porsi il problema di cosa significa la differenza di pressione fra una parte e l’altra del Mondo. Tutto rischia di essere cancellato, sia per chi cresce che per chi deve diminuire. E così, mentre in Europa o negli Stati Uniti scompaiono miseramente storie e realtà industriali nel giro di pochi mesi – lasciando solo disperazione e degrado – dall’altro, in Cina, spuntano come funghi città di dieci milioni di abitanti, con un inevitabile corollario di tragedie rurali e di disastri ambientali urbani.

Accanto alla violenza temporale, vi è un’asimmetria economica e sociale che produce a piene mani Ingiustizia.
Nell’impetuoso scompaginarsi dei fenomeni economici, gli effetti sociali sono radicalmente diversi tra chi sta in alto e chi sta in basso – da un lato e dall’altro del nuovo mondo globale.
Dice Zygmunt Bauman – acuto studioso del nuovo mondo che viene - che le società si vanno riorganizzando in due inedite classi sociali: i “mobili” e i “territoriali”. I primi rappresentano la nuova élite, in grado di muoversi nel mondo cogliendo opportunità ed esperienze; i secondi restano legati al vecchio mondo e sono le vittime del nuovo.

Per ragioni etiche e politiche, crediamo che occorra difendere i secondi, perché maggioranza e perché destinati alla sconfitta nell’attuale processo storico mondiale. I primi non solo si difendono da sé ma attaccano e intaccano duramente le condizioni dei più.

La globalizzazione è crescita e redistribuzione allo stesso tempo. E’ per questa ragione che occorre una politica pubblica forte e lungimirante. Storicamente, la dimensione pubblica, sia nazionale che transnazionale, appare non solo opportuna ma indispensabile.

Se la globalizzazione è crescita, e crescita tumultuosa che scardina ogni vincolo ambientale ed energetico, allora una politica ampia, transnazionale e rigorosa dei beni pubblici si impone. Non ci sono alternative – e lo dicono le quotazioni delle materie prime e del petrolio di questi giorni, così come lo segnalano i tassi di inquinamento delle città cinesi e indiane.

Se la globalizzazione è redistribuzione della ricchezza, una redistribuzione che fa crescere enormemente la quota dei profitti – e, in alcuni casi, come in Italia, delle rendite – a scapito dei salari, allora una politica dei redditi in senso opposto è improrogabile. Per essere il più possibile espliciti: vanno difese le condizioni di vita degli operai italiani, perché domani si possano difendere i diritti dei lavoratori a Shenzhen come a Bangalore. Ed è non solo di contratti sindacali che vogliamo parlare, ma soprattutto di servizi sociali e di diritti di cittadinanza.

Occorre investire in beni pubblici e ricostruire un autentico Welfare State: queste sono due semplici ma dirimenti priorità.

Ecco perché bisogna affermare più pubblico – e non più privato – in questo ineluttabile mondo globale.


Giampietro Pizzo