lunedì 27 ottobre 2008

Ritornare alla politica

Ormai è chiaro a tutti: la crisi economica che stiamo vivendo non è un incidente di percorso nello sviluppo dei mercati internazionali e nell’affermarsi di un’economia globale.
Come qualcuno ha detto in questi giorni, “il marcio è nell’economia” (Ancora vertici, 23/X/08, www.contropagina.com), perché è il meccanismo infernale dei mercati globali che ci ha condotto a questa situazione. Gli Stati Uniti sono stati, ancora una volta, il laboratorio delle contraddizioni economiche e dell’ esasperazione del profitto a tutti i costi.
La tanto decantata concorrenza internazionale ha ridotto drasticamente negli ultimi dieci anni il potere d’acquisto dei produttori; per far fronte a una domanda interna sempre più fiacca, l’unica soluzione è stato concedere crediti a tutti e su tutto: dal mutuo per l’acquisto della prima casa alle scarpe comprate a rate. Se la remunerazione del proprio lavoro non era sufficiente per ripagare i propri debiti, poco male: un nuovo credito era pronto a rifinanziare il debito pregresso. Il motore della crescita era diventato – senza che quasi nessuno se ne stupisse – il debito.
Il debito complessivo americano ha raggiunto così nel 2007 la cifra folle del 346% del PIL. Nessun paese al mondo avrebbe ragionevolmente potuto sostenere un fardello così oneroso. Ma è un debito che sembrava far comodo a tutti: agli esportatori cinesi, ai produttori di greggio e ai gestori di fondi di ogni razza e colore. Ora che la giostra si è rotta e ha sparso rottami e lamenti per ogni dove, tutti all’unisono chiedono alla mano visibile dello Stato di porre rimedio ai disastri lasciati sul terreno dalla mano invisibile del mercato.
Gli invincibili banchieri, i capitani coraggiosi, e i “prenditori” di sempre, chiedono per il “bene dell’economia” interventi all’altezza della situazione. Aiuti di stato, ricapitalizzazione degli istituti bancari in difficoltà, incentivi fiscali, etc.. Altro che Maastricht, altro che risanamento della finanza pubblica! Siamo alle solite, voi direte, la regola aurea non si cambia: “privatizzare i profitti, ma socializzare le perdite”. Eppure, in questo caso, non stiamo assistendo a un film già visto: la dimensione della crisi è tale che quei vecchi cari arnesi non serviranno a nulla, anzi rischieranno di rendere ancora più ingovernabile – semmai è concepibile - la situazione.
Lo scenario più drammaticamente credibile è che il crollo della domanda inneschi una recessione di proporzioni inaudite. Che cosa significherebbe nell’Italia di oggi una disoccupazione a due cifre? Una società come la nostra senza ammortizzatori sociali degni di questo nome, con livelli di reddito che hanno ricacciato fette consistenti di popolazione in condizioni di povertà o a rischio di povertà, potrebbe sopportare che il 10-15% della popolazione attiva sia espulsa dal mercato del lavoro?
E quali conseguenze questa situazione potrebbe generare in un contesto sociale così fragile, pregno di paure e di paventate minacce? Populismo e razzismo sono - la Storia lo ha più volte dimostrato - figli naturali della paura e dell’insicurezza.
Dall’altro, la miseria della finanza pubblica accanto alle miserie della finanza privata ha profondamente intaccato i servizi pubblici essenziali. La ricapitalizzazione delle banche e gli aiuti alle imprese quanto incideranno sul taglio di scuola, salute e previdenza?
Disoccupati senza tutela, vecchi senza assistenza, malati abbandonati: questo può significare domani la crisi finanziaria odierna.
Il mercato ha fallito: e non è, lo ripetiamo, un incidente di percorso. Per questo occorre un cambiamento radicale di paradigma.
Vanno ricercate subito nuove regole di redistribuzione e di reciprocità, per ridefinire un credibile patto sociale fra cittadini.
Vanno ricostruiti i servizi pubblici essenziali, senza se e senza ma. Se l’economia e la finanza del capitale sono le evidenti responsabili dello stato delle cose, perché il vincolo di bilancio dovrebbe condizionare le grandi scelte del vivere civile? Perché l’indebitamento pubblico per l’istruzione, la salute e la lotta alla povertà dovrebbe essere un male, mentre l’indebitamento pubblico per sostenere la finanza e i consumi privati dovrebbe essere un bene?
E’ ormai evidente che è tempo di liberarsi dalle trappole dell’economicismo ancor prima che dalle trappole della liquidità. Occorre, in modo chiaro e determinato, contrastare la sacra autonomia dell’economico che ci ha condotto a questo pericoloso grado di disumanizzazione, di povertà materiale e culturale.
Ritornare alla politica e alla sovranità delle scelte pubbliche è l’unica plausibile strada da intraprendere.

Giampietro Pizzo