giovedì 25 novembre 2010

Avvoltoi e macellai

In queste ore, i venti assassini della finanza speculativa sconquassano ancora una volta, a pochi mesi dalla drammatica crisi greca, i cieli europei. E’ la volta dell’Irlanda – la “bonne élève” delle politiche europee di globalizzazione.
Purtroppo, l’instabilità monetaria, che agita le cronache dei giornali, è solo il triste annuncio di quello che rischia di succedere nelle prossime settimane: prima il prosciugamento delle già scarse risorse pubbliche comunitarie, poi, freddi e inesorabili, i tagli ai bilanci e alla spesa pubblica in molti Paesi europei.
Francesco Giavazzi scrive sul Corriere della Sera del 24 novembre che sono “l’incertezza e i ritardi della politica che preoccupano i mercati e che alimentano la speculazione”.
Mercati e speculazione– sarebbe bene che lo ammettesse per una volta Giavazzi – non sono entità metafisiche e astratte. Anzi, a ben vedere, proprio in queste ore, “mercati” e “speculazione” rappresentano interessi ben precisi, con nomi e cognomi tra i noti gruppi di investitori finanziari internazionali. Istituzioni finanziarie scientemente organizzate per lucrare sulle sciagure di interi comparti di economia pubblica e su ampie fasce di società.
Occorre dare un nome a questi professionisti della speculazione finanziaria, e il loro nome è senza enfasi: avvoltoi. Avvoltoi che, in nome del libero mercato, guadagnano in pochi secondi enormi somme di denaro giocando al ribasso o al rialzo, poco importa, sulle quotazioni dei titoli pubblici; avvoltoi che aggrediscono, alla stregua di carogne, ieri la Grecia, oggi l’Irlanda, domani il Portogallo, dopodomani la Spagna e, infine, chissà?
Sia chiaro: non sono investitori costoro e non è mercato codesto.

Ma di fronte a tanto disastro finanziario, ecco che l’economista, come ogni buon medico chiamato al capezzale del malato, emette la sua diagnosi e proclama la propria ricetta. E qual è la ricetta del medico Giavazzi? Occorre “limitare la garanzia (del Fondo europeo per la stabilità) al livello pattuito nel Trattato di Maastricht”, ovvero per un massimo del 60% del debito pubblico dei singoli Stati. Oltre quel limite – specifica Giavazzi – che ognuno si arrangi e faccia quello che meglio crede per salvarsi dagli avvoltoi, perché l’Europa intera nulla può di fronte alla potenza del mercato!
“Quello che meglio crede” è da intendersi, con le politiche monetarie e fiscali prevalenti, né più né meno che cruda macelleria sociale.

In Italia, questo significherebbe ancora una volta - e lo sappiamo già per esperienza diretta: tagli indiscriminati alla scuola, alla sanità, al welfare, all’occupazione.
Lo vediamo proprio in queste ore in Irlanda che cosa significhi macelleria sociale: decine di migliaia di posti di lavoro pubblico soppressi, tagli enormi agli investimenti, alla spesa sociale, ai consumi dei ceti medi e bassi della popolazione. Gli unici strumenti di politica economica che non vengono toccati – “per non preoccupare i mercati” – sono le esenzioni e gli incentivi fiscali alle imprese.
Tra gli analisti, qualcuno ha – mi chiedo – la più pallida idea di quali siano le conseguenze sociali di questo modo di agire? Qualcuno si interroga davvero su quale sia la valenza sociale di una redistribuzione di ricchezza di proporzioni bibliche come quella a cui assistiamo, dalle tasche di gente che fatica ad arrivare a fine mese a beneficio dei conti blindati delle istituzioni finanziarie che in questi giorni macinano profitti giganteschi di miliardi di euro?
All’indecenza morale degli avvoltoi, non è razionale né lecito rispondere con il cinismo dei macellai.
Occorre invertire la rotta prima che sia troppo tardi. Prima che i disastri che questa crisi finanziaria sta provocando producano tali quantità di odio sociale da indurre una sequela di conflitti e un caos civile che nessuno saprebbe governare.
Per questo occorre andare oltre le ciniche pratiche di economia da guerra civile che attraversano l’Europa per tornare il prima possibile alla Ragione.

Giampietro Pizzo

Venezia, 25 novembre 2010

PS: Se qualcuno volesse davvero esercitarsi con politiche di riduzione del deficit pubblico e di contenimento del debito pubblico italiano potrebbe, intanto, cominciare con fare due cose. La prima, sul fronte delle entrate, si chiama imposta sulle transazioni finanziarie, ovvero sulle speculazioni finanziarie. Ne deriverebbe un’entrata di proporzioni tali che molti dei nostri problemi fiscali assumerebbero tutt’altra proporzione. La seconda, sul fronte della spesa, si chiama riduzione drastica della spesa militare. Gli attacchi da cui dobbiamo difenderci non si arrestano certo con armi e aerei caccia. Semmai il contrario. E sarebbe proprio un bel taglio alla spesa pubblica!

lunedì 8 novembre 2010

I due Paesi

Per capire l’Italia di oggi non c’è bisogno di aprire i giornali, le televisioni, i media in generale. Anzi questo rende tutto più difficile, confuso, inutile. Per capire questo nostro povero e bistrattato Paese, bisogna avere occhi nuovi, ma capaci di memoria.
E’ questo che si fa drammaticamente urgente: vedere, ascoltare, capire.
Non vedono i politici che, in queste ore, ripropongono polemiche vuote, vecchi sotterfugi, giochetti tattici, dentro e fuori il Palazzo in nome di una crisi istituzionale, a sentir loro, da evitare a tutti i costi.
Non ascoltano i ministri di questo governo ormai morto, né lo fanno i capitani di ventura di un capitalismo senza vergogna, mentre predicano all’unisono ricette marce e false sulla ripresa dell’economia italiana.
Non capiscono gli esperti sondaggisti né gli analisti politici quello che di profondo, irreversibile, inedito sta accadendo nella società italiana.
Per questo dobbiamo vedere, ascoltare, capire per conto nostro.
Dobbiamo farlo fuori dal Palazzo e fuori dalle accademie; fuori dai consigli di amministrazione delle grandi società e fuori dalle riunioni di redazione dei giornali. Dobbiamo farlo noi che “fuori” da quel mondo autoreferenziale e spesso fasullo ci siamo già.
Eppure non lo possiamo fare ognuno per proprio conto: dobbiamo essere in tanti ritrovando, soprattutto, il modo di stare insieme.
Conosciamo la nostra condizione. Siamo poveri di strumenti di analisi, perché in questi anni hanno fatto tabula rasa delle pratiche di partecipazione cittadina. Siamo disorientati e spaventati, perché le mille sirene del berlusconismo sono entrate un po’ nelle orecchie di tutti: nessuno escluso. Siamo confusi e incerti nella ricerca di quali principi e regole sociali ci debbano guidare, perché l’amoralità, lo scetticismo, il qualunquismo hanno annullato decenni di democrazia.
Eppure dobbiamo farlo. E credo che molti stiano pensando la stessa cosa: che nessuno si salva dinanzi alla catastrofe culturale di un Paese; nessuno uscirebbe indenne dai crolli sociali e nessuno potrebbe sottrarsi ai fiumi di fango che irromperebbero fino in fondo alle nostre vite private e pubbliche.
E’ questa istanza, questa urgenza che io chiamerei, per intenderci, la “nuova Politica”. Una “nuova Politica” che sia un moto di salvezza, una reazione di vita, capace di attraversare le attuali appartenenze politiche sconvolgendole alla radice.
Questa azione collettiva, chiamata a salvare l’Italia, non sarà certo indolore: bisognerà saper indicare responsabilità e omissioni, ipocrisie e inettitudini; per questo, occorrerà, fra l’altro, un “radicale” ricambio di classe dirigente.
In tempi straordinari, la moderazione è cattiva consigliera e il buon senso comune è chiamato a dormire per un po’ il sonno dei giusti.
In tempi nuovi, occorre essere aperti, lungimiranti e generosi, andando oltre i rancori e le idiozie competitive, trascurando i vili egoismi individuali.
Questo accadde nei tempi bui della catastrofe fascista e dell’occupazione nazista. In quell’Italia martoriata e affamata, un ciclo nuovo si aprì. Chi ne fu protagonista non furono uomini e donne eccezionali ma persone comuni che assunsero su di sé il destino di un popolo.
Io credo che questo possa e debba – pena il caos e la barbarie – succedere in Italia oggi.

A questo progetto politico, che non ha certo segnata la strada, ma che è memore di quanto di buono si è costruito in Italia nella seconda metà del Novecento, siamo chiamati a contribuire. Lo vogliamo fare da quella parte, che si chiama Sinistra, che incarna ancor oggi, in modo inequivocabile, i valori della giustizia, dell’eguaglianza e della libertà.

Pier Paolo Pasolini, nel suo ultimo anno di vita, quasi presagendo la fine, accelerò enormemente il proprio sforzo per vedere, ascoltare e capire che cos’era l’Italia. Vide una società che si arrendeva al peggio di sé stessa; ascoltò, con tutta la sua sensibilità di poeta e di intellettuale, i mille silenzi sulle stragi di Stato e le voci mute delle vittime; capì che una nuova forza politica doveva farsi carico, prima che fosse troppo tardi, “della salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni democratiche”.
Ma quella forza politica – che per Pasolini era allora il Partito Comunista - doveva farlo andando oltre le separazioni, risolvendo innanzitutto il paradosso di accontentarsi di rappresentare “un paese pulito in un paese sporco, un paese onesto in un paese disonesto, un paese intelligente in un paese idiota, un paese colto in un paese ignorante, un paese umanistico in un paese consumistico”.
Perché l’antica divisione dell’Italia “in due paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l'altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività”.
Per questa ragione non possiamo essere solo una Parte/Partito, perché non possiamo rappresentare solo il migliore di quei due Paesi, ma dobbiamo far sì che quell’altro Paese, che ha, in questi decenni, invaso, distorto, distrutto le nostre vite, venga letteralmente meno, si dissolva, si annulli, per lasciare posto, pacificamente, a un solo grande pulito onesto intelligente colto Paese.
E’ questo l’unico obiettivo della Politica che verrà.

8 novembre 2010


Giampietro Pizzo