domenica 23 novembre 2008

Oltre la crisi. Un’opportunità

La crisi che stiamo vivendo non è un fatto ordinario. Non è una crisi locale ma un fenomeno planetario; non è una semplice, seppur drammatica, crisi finanziaria ma una possibile rimessa in discussione dell’economia capitalista.
Molte cose si sono inceppate: l’autoregolazione del mercato, l’irrefrenabile accumulazione di capitale, l’autoreferenzialità della sfera economica. Soprattutto, oltre questi arcinoti e apparentemente inossidabili paradigmi, è venuta meno una più banale e sostanziale
« fiducia nei mercati ».
Ma che cos’è davvero la fiducia nel mercato? E’ pensare che una relazione privatistica tra persone, fondata su relazioni di scambio istituzionalizzate sia la causa agente di un mondo migliore: più efficiente, più giusto, migliore appunto, rispetto a desuete relazioni di reciprocità e a sepolti rapporti non mercantili.
Va detto che la fiducia nel mercato non ha solo annullato i rapporti di reciprocità tra le persone ma, purtroppo, ha fatto molto di più. Ha spazzato via, con arroganza e con violenza, un’intera storia di auto-organizzazione popolare che si era, nel dopoguerra, fatta Stato. Ha cancellato negli ultimi venti anni quella funzione redistributiva - per una maggiore giustizia ed eguaglianza economica e materiale - che abbiamo chiamato a lungo Welfare.
Quella « fiducia nei mercati » era un dispositivo ideologico potente. Così potente che - quel modo di guardare al mondo - si è trasformato un po’ alla volta in una condizione fondante, «naturale », del vivere in società. La sua forza stava nel fatto di essere considerato come inevitabile: per questo profondamente assimilato dalle menti e dai comportamenti di noi contemporanei.

Nel silenzio delle prime ore della crisi, quando gli analisti avevano smesso di pontificare e i politici non sapevano che pesci pigliare, era possibile rintracciare, oltre al panico e alla paura per l’inatteso che ci attendeva e alla fine dei rassicuranti scenari macroeconomici, un’opportunità, una piccola ma preziosa opportunità. Un’opportunità che veste la forma di un semplice ma inquietante interrogativo. E se fosse possibile intravedere, con gli occhi della crisi, un’altra e radicalmente nuova prospettiva di organizzazione materiale, sociale e culturale?

A contributo di questa tesi, vorrei provare, con un esempio, a immaginare ciò che potrebbe accadere se solo si guardasse con occhi nuovi alle istituzioni, alla politica economica, alle regole della produzione sociale.

Lo sappiamo: la crisi dei mercati finanziari internazionali ha bruciato e continua a bruciare centinaia e centinaia di miliardi di euro (o di dollari, a piacere). Si tratta di un valore storicamente prodotto dalle relazioni fiduciarie di scambio stabilite tra privati (siano essi soggetti fisici o giuridici).
Ora è venuta meno la fiducia: “Io non mi fido più di te, perché non mi fido più del segno monetario e finanziario che costituisce la nostra relazione”. E’ venuta meno perché qualcuno ha buttato alle ortiche quel minimo di etica e di regole che salvaguarda la simmetria e la sostenibilità delle relazioni umane ancor prima che contrattuali, oppure perché, come al Casinò, prima o poi il gioco finisce e “il banco vince!”.

Il collasso di questa relazione ha distrutto il valore/segno delle relazioni economiche di mercato. L’effetto valanga è ormai noto a tutti: è stato distrutto il valore azionario dei soggetti privati finanziari (banche); è crollata la fiducia reciproca tra gli istituti finanziari (nessuno è più disposto a fare credito all’altro), tra questi e i risparmiatori e tra questi e le imprese.
Nessuno si fida più di nessuno e il sistema è andato a rotoli!

A questo punto, quando l’individuo non scommette più sull’individuo, che fare?
Lo Stato deve intervenire! - si pretende da tutte le parti a gran voce. Lo Stato deve garantire! Lo Stato deve iniettare fiducia! Lo Stato deve stimolare l’economia!
Se nessuno si fida più delle banche, perché sottocapitalizzate, bisognerà ricapitalizzare le banche.
Se nessuno si fida più delle imprese, perché le banche chiudono loro il rubinetto del credito, bisognerà aiutare le imprese.
E giù miliardi di spesa pubblica, di emissioni obbligazionarie, di fondi di garanzia sovrani.
Tutto logico e ortodosso - come Mercato comanda.

Un dubbio. Ma se il fulcro è la fiducia, siamo così sicuri che la creazione di fiducia passi solo attraverso la produzione di capitale finanziario? E se la moneta è solo un “velo” che copre la relazione economica, siamo proprio certi che l’unica strada per un rinnovato patto fiduciario debba essere la stessa che ha fatto collassare il sistema? E ancora: par quale motivo il rinnovato patto fiduciario tra rispamiatori e investitori dovrebbe vestire solo panni privati?

Se è solo il pubblico – leggi lo Stato ma anche un rinnovato tessuto organizzativo di cittadini, siano essi produttori e/o consumatori o altro ancora - che può ricreare fiducia, di questo dobbiamo occuparci e non di altro.

Il meccanismo proposto - dai soliti tecnici per i soliti politici e, a loro volta, per i soliti burocrati - è anche tecnicamente perverso: io Stato emetto obbligazioni – cioè valorizzo una preesistente o rinnovata relazione fiduciaria con i cittadini – che vengono acquistate da risparmiatori; grazie alla raccolta di queste risorse pubbliche, le banche possono consolidare il loro capitale privato; un maggiore capitale privato (tier 1) consente loro di erogare più credito alle imprese, le quali, a loro volta, produrranno di più, creeranno più lavoro, etc.
Il meccanismo è chiaro: la fiducia nel pubblico è messa a disposizione della claudicante fiducia nel business privato. Perché non è possibile intervenire direttamente? Perché è una bestemmia in questo benedetto Paese parlare di intervento pubblico diretto nell’economia?

Applichiamo la semplice logica. Se i cittadini torneranno a fidarsi dello Stato – e lo faranno anche perché l’alternativa, la Borsa, si è dimostrata poco affidabile – perché quel credito non può essere speso direttamente? Perché delegare, senza sapere né per cosa né per come si erogherà credito e si investirà? Armi, energia nucleare, industria automobilistica, scuola privata, cliniche private, speculazioni edilizie, nuova e creativa finanza alla Zaleski?

Perché non tornare a una sana politica economica in cui sia possibile come cittadini scegliere ciò che vogliamo e ciò che non vogliamo? Ad esempio, finanziando quel capitale materiale e immateriale che oggi costituisce la vera crisi strutturale del nostro Paese. Per sanare quel deficit di infrastrutture sociali e ambientali che rende povero economicamente, socialmente e culturalmente il nostro Paese: case per le persone (in affitto oltre che di proprietà), ricerca scientifica, istruzione e cultura, servizi sociali di base, sanità, etc..
Chi l’ha detto che le banche dovrebbero essere degli ottimali allocatori di risorse, dopo quanto abbiamo visto in questi mesi?
Si dice, ma lo Stato è corrotto, ottuso, inefficiente. Ebbene, nel nuovo patto fiduciario per portare i cittadini a finanziare lo Stato – ad esempio, attraverso i titoli di Stato, ma lo stesso vale per imposte e tasse – bisogna saper dimostrare come e dove si spenderanno le risorse raccolte. Una nuova finanza etica pubblica insomma, per opporre ai soliti evasori, speculatori, “furbetti del quartierino”, gruppi sociali organizzati che rivendichino, difendano e governino i diritti di cittadinanza, dentro e fuori delle relazioni economiche.
Più controllo sociale per più fiducia pubblica. Più fiducia pubblica per più spesa pubblica. I Monti e i Giavazzi taceranno per una buona volta, e con loro le ancelle europee (alla Trichet) dell’economia “a inflazione zero” che ci ha portato proprio dove ora ci troviamo.

Questa possibile nuova finanza pubblica, che va oltre la crisi, aprirebbe un’inedita agenda di discussione politica. Molti dei sancta sanctorum dell’economia ortodossa dimostrerebbero la loro vacuità.
Ad esempio.
Perché la finanza di progetto non potrebbe essere applicata direttamente dai cittadini, costruendo sottoscrizioni pubbliche su singoli progetti? Dove sta scritto che solo i grandi gruppi industriali ne sono capaci?
Come cambiare concretamente l’uso sociale del credito per fare politica economica a piccola scala? La finanza etica e la finanza sociale sono in questo senso praticabili?
E le tasse di scopo? Come collegare entrate e uscite per ricreare davvero fiducia e relazione solidale?
E per finire. Pensando alla nostra esistenza e alle fragilità della vita, c’è davvero più fiducia in un fondo pensione che in una vera relazione e redistribuzione sociale?

Vi è materia per un programma politico.
Varrebbe la pena parlarne.


Giampietro Pizzo