lunedì 8 ottobre 2007

Prendere posizione

Cari tutti,

Vorrei tentare in poche righe un ragionamento a voce alta su quanto accade nel nostro Paese.
Il nostro incontro del 29 settembre doveva essere l'occasione e il "luogo" per un'analisi aperta e collegiale; doveva essere il tentativo come gruppo di cultura politica di dire la nostra. Non lo è stato e me ne dispiace.

Provo ora, a mio modo, a rilanciare la precedente sollecitazione di Fernando.

Il 20 ottobre a Roma la Sinistra sarà chiamata ad aderire o a non aderire a un appello che punta il dito su sette grandi questioni: la precarietà del lavoro; la questione delle diseguaglianze sociali; la difesa dei diritti civili e della laicità dello Stato; il valore della cittadinanza (in particolare per i migranti); la lotta per la pace; la difesa e valorizzazione dell'ambiente; l'affermazione di una cultura della legalità.

Fare politica vuol dire, a mio modo di intendere, prendere posizione: manifestare un assenso o un dissenso; e, ancora, indicare le assenze, le insufficienze, le distorsioni.

Fare politica vuol dire rendere esplicita la propria collocazione e il proprio punto di vista; vuol dire vivere i conflitti che, su queste o su altre questioni, dentro la società, si aprono e si apriranno.

E' per questo che, con molta approssimazione e semplificazione, provo a dire la mia.

Comincio con la più dolorosa questione del lavoro e della precarietà.

Il mondo del lavoro è un mondo in grande difficoltà, pieno di sofferenze piccole e grandi: su questo non vi è dubbio. L'esistenza di milioni di lavoratori italiani è messa in questione dai processi di globalizzazione che facendo saltare i confini nazionali e le protezioni economiche e fiscali nazionali aprono a una tremenda competizione internazionale. Questa produce due effetti principali: bassi salari e precarietà (chiamata da altri flessibilità). Concordo quindi sull'analisi. Mi permetto però di osservare:
1) la difesa dei nostri lavoratori rimane comunque una difesa dello status quo - e non la costruzione di una realtà migliore e più giusta che veda coinvolti oltre ai lavoratori italiani anche quelli cinesi, indiani, brasiliani, etc.. Le difese spesso - senza un progetto che rilanci - sono destinate, nella migliore delle ipotesi, ad arretrare; nella peggiore, a franare miseramente.
2) la condizione di difesa non è la stessa per tutti: chi sta in una fabbrica tessile o meccanica è di gran lunga più esposto di chi lavora nel pubblico impiego o in alcuni servizi protetti. Questa condizione diseguale produce vantaggi e svantaggi: chi è sulla frontiera della globalizzazione è destinato a soccombere al ricatto "o così o me ne vado a produrre altrove"; chi sta nel comparto "chiuso" della nostra economia nazionale può continuare invece a difendere i propri diritti di lavoratore.
3) I diritti o sono di tutti o non sono. Altrimenti sono solo privilegi - più o meno comprensibili.
4) Ma la questione più radicale e decisiva ha a che fare con la centralità della condizione del produttore nella nostra società: è chiaro che, nell'attuale divisione internazionale del lavoro, noi Nord siamo destinati a contare sempre più come consumatori e sempre meno come produttori.
La nuova centralità del lavoro sembra essere stata anch'essa delocalizzata in Cina, in India o altrove.
Posso continuare a resistere. Ma non basta. Occorre avere un progetto di società e di vita.

E qui vengo a un'altra delle questioni della piattaforma del 20 ottobre: la cittadinanza.
Il concetto e il valore di cittadinanza non può e non deve essere solo un valore giuridico-formale. Occorre costruire (o ri-costruire) una cittadinanza sociale, economica, culturale.
Lì dentro ci stiamo tutti: migranti e residenti; cittadini nuovi e vecchi.

Forse la nostra precaria condizione di produttori o di consumatori dovrebbe lasciare il posto alla nostra instabile condizione di cittadini. Su questo dobbiamo concentrare l'attenzione e l'agire politico. Su questo dobbiamo ricostruire la centralità del Politico.

La nostra condizione cittadina sussiste prima e dopo il nostro essere produttori o consumatori (oltre quindi lo strapotere dell'economico nelle nostre vite). Basta pensare a quanto sia difficile riconoscere davvero la condizione dei giovani e degli anziani: condizioni di vita ridotte all'interno dell'attuale apparato sociale a "funzioni non produttive" e come tali problematiche. Schemi inumani e, per di più rigidi e studipi: il pensionato per definizione non è più "attivo" (cioè smette di produrre valore per la propria collettività); il giovane è per antonomasia "un problema", sia nella fase formativa che nella fase di inserimento lavorativo.

E' un cambiamento logico di portata storica che ci obbligherebbe a rivedere radicalmente i nostri diritti e anche le nostre battaglie.
Una di queste, fondamentali, sarebbe il diritto a un reddito minimo di cittadinanza.
Proviamo a pensare come cambierebbero immediatamente le cose: si aprirebbe uno scenario radicalmente diverso rispetto all'attuale condizione di precarietà e alle fragilità del nostro diritto ad avere condizioni dignitose di vita (abitare, nutrirsi, vestirsi).

A partire da questa sicurezza, da questo nuovo welfare, qualsiasi precarietà lavorativa potrebbe essere affrontata dotando ognuno di noi di un inedito grado di libertà (ad esempio, il diritto a licenziarsi da un lavoro poco gratificante, mal remunerato, inadatto alle proprie capacità e aspirazioni).

Questa nuova centralità della cittadinanza ridurrebbe anche lo stesso strapotere del soggetto consumatore: il nostro diritto a esistere non potrebbe più essere delegato alla nostra capacità di consumare (il diabolico meccanismo per cui contiamo per quanto consumiamo).

Lavoro, diseguaglianze sociali e cittadinanza diventano qui una sola questione.

Qualcuno ha sostenuto in questi mesi che essere davvero liberisti vuol dire essere di sinistra.
Raccolgo la sfida: libertà di assumere e di licenziare, ma a patto che si assicuri a tutti un reddito minimo di cittadinanza (800 euro).
Ma subito lo stesso diligente economista/liberista risponderebbe: ma questo non è possibile!!! Occorre rispettare i fondamentali dell'economia!! La nostra società non si può permettere questo lusso!

Io credo che questo "lusso" ce lo dobbiamo e possiamo permettere. Basta decidere di attaccare seriamente la rendita e i patrimoni feudali di questo Paese; basta decidere di introdurre, per finanziare in parte il reddito minimo di cittadinanza, un'imposta patrimoniale.

Uno spettro si aggira per la casa della Sinistra: lo spettro della Patrimoniale!! Aveva fatto una fugace apparizione agli inizi degli anni '90 per scomparire definitivamente poco dopo.Chi l'ha vista?

Sulle altre questioni.

Laicità e Legalità sono due battaglie di civiltà. Vanno condotte con determinazione sapendo che non si cambia un Paese in pochi anni. Ma, prima o poi, bisognerà pur cominciare.

Non lo farà certo il Partito Democratico che vuol comporre l'incomponibile; né lo faranno i giustizialisti di turno, né i "giovani politici" d'assalto ( di cui purtroppo è pieno anche il Governo Prodi).

Ambiente e Pace sono questioni globali, planetarie: come tali vanno affrontate rendendo la battaglia politica su questi temi sovranazionale. Nessuna nuova Politica è possibile se continuiamo a ragionare dentro i nostri angusti confini, per ottusità o per comodo.

Con queste idee in testa andrò alla Manifestazione del 20 ottobre.
So che avrò accanto molti che non condivideranno questa impostazione: alcuni per paura, altri per difesa della loro condizione particolare (di sindacalisti, di dipendenti pubblici, di lavoratori interinali, etc..).
Ma occorrerà prima o poi guardarsi negli occhi e dirci che senza un linguaggio comune, senza una disponibilità a ripensare radicalmente la Politica e la nostra società, senza un terreno di intesa su poche (forse solo una) questioni comuni, qui non andiamo da nessuna parte.
Anzi peggio, saremo, parafrasando un "intelo" francese, i nuovi naufraghi del Pianeta.


Attendo vostri commenti.

State bene.

Giampietro Pizzo