La grande fatica di questi giorni è sapere/potere distinguere tra le analisi che cercano soluzioni ai problemi e le prese di posizione che tendono a difendere, in modo più o meno velato, interessi preordinati.
L'onestà intellettuale potrebbe essere un buon criterio per dirimere i confronti democratici. Ma più si ingarbuglia la matassa, più è difficile separare gli interessi di vita da quelli illeciti o, ed è un fatto ancor più grave sul piano morale, semplicemente indecenti. E allora, come direbbero i matematici, la matrice si complica: in basso a sinistra, gli onesti con interessi essenziali; in alto a destra, i retori corporativi; in mezzo, molte composizioni intermedie da leggere e interpretare caso per caso.
Intanto, più passa il tempo, più il dibattito pubblico diventa ingovernabile - nel mentre il populismo ipocrita avanza. E' per questo che considero disonesto ammantare il governo attuale della qualifica di "tecnico", come se tecnica fosse la natura delle soluzioni di cui abbiamo bisogno. Chi parla di soluzioni univoche, difende semplicemente il predominante paradigma di mercato, lo stesso che ci ha portato laddove oggi siamo. Lor signori, stanti questi presupposti, o sono incapaci o sono disonesti. E intendo per "disonesto" quell'atavico gattopardismo che ha una responsabilità morale pesantissima nelle crescenti iniquità, ingiustizie, impunità. Propendo senz'altro per questa seconda interpretazione, sapendo che gli interessi organizzati che legittimano il vigente "ordine del discorso" sono potenti (e certo non banali). Guardando a questo stato delle cose, ha davvero ragione il vecchio Habermas: qui rischiamo di mandare a puttane quel poco di civiltà che abbiamo costruito negli ultimi cinquanta anni. E' poco meno della mia età, ma non vorrei rivedere dal vivo cose che sinora ho letto solo sui libri di storia.
Giampietro Pizzo
martedì 13 dicembre 2011
Imbecilli e gattopardi
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domenica 27 novembre 2011
Leggere un classico: Luigi Einaudi
Di fronte alla lacerante crisi che attraversa l’Europa, e che insiste in modo particolarmente nefasto sul nostro Paese, l’unico rifugio, per riprendere fiato e per conservare un briciolo di lucidità, sembra trovarsi in qualche testo classico.
E così, mentre si susseguono mille consigli e innumerevoli ricette su cosa sarebbe meglio fare per rimettere in ordine i conti della nostra disastrata finanza pubblica, vale la pena prendere per un attimo la distanza dai fatti quotidiani e recuperare la migliore memoria del pensiero economico italiano.
Ecco una precisa descrizione (ex-ante) di come si è andato formando il nostro debito pubblico nelle parole di un grande economista e politico italiano, Luigi Einaudi.
“Supponiamo che uno Stato (…) voglia provvedere alle spese ordinarie col debito; e siano le spese ordinarie di un miliardo all’anno.
Il primo anno i contribuenti (supposto che si possano emettere titoli pubblici con una rendita perpetua del 5% contro un capitale sottoscritto di 100) sentono un beneficio poiché pagano 50 milioni d’imposta-interessi invece che un miliardo; ma il secondo anno già pagheranno 50 milioni per il debito di un miliardo dell’anno precedente e 50 milioni per il debito di un miliardo dell’anno. Nel terzo pagheranno 150 milioni, finché nel ventesimo anno dovranno pagare un miliardo di imposta-interessi sui 20 miliardi di debito accumulato in ossequio alla teoria; ed in seguito l’imposta-interessi continuamente crescerà, superando l’onere che i contribuenti dovrebbero sopportare se ogni anno avessero fatto fronte alle spese ordinarie con l’imposta.
Adunque fa d’uopo non esagerare nei prestiti pubblici, i quali devono essere conclusi esclusivamente per far fronte a delle spese veramente straordinarie.*”
Einaudi ricorda qui un sano e semplice principio di finanza pubblica: occorrono entrate ordinarie per spese ordinarie ed entrate straordinarie (imposte straordinarie o debito pubblico) per spese straordinarie (investimenti pubblici e/o spese eccezionali).
Giova ricordarlo in un Paese che ha trascurato gli investimenti pubblici essenziali (scuola e ricerca) e usato il debito per coprire le spese ordinarie (buone e cattive) e per sopperire alle mancate entrate ordinarie (elusione fiscale su taluni redditi e patrimoni ed elevatissima evasione fiscale ).
Giova ricordarlo nel momento in cui il Governo si appresta ad adottare misure tributarie che dovrebbero cominciare a rimettere i conti in ordine.
Ma di quali imposte ordinarie abbiamo bisogno? Una seconda citazione di Luigi Einaudi, a proposito di imposta patrimoniale, può ancora assisterci.
“L’imposta sul capitale o patrimonio complessivo del contribuente vuole essere il congegno correttore della sperequazione (ovvero: “ un sistema tributario che è considerato dai più come sperequato, perché tutte le fonti di reddito sono trattate alla medesima stregua, nonostante che la loro disponibilità sia variabile)”.
Infine, un ultimo pensiero va al purtroppo quasi certo aumento dell’IVA – imposta, ahinoi, facilmente riscuotibile (per chi la paga, ovvero per il consumatore) ma terribilmente regressiva (dato che grava maggiormente su chi meno ha). Una terza riflessione einaudiana sulla ricerca ossessiva degli avanzi (primari) di bilancio che speriamo ispiri ai nostri “tecnici” qualche esitazione in più.
“Prima di parlare di avanzo disponibile per ridurre il debito pubblico, bisogna avere perciò diminuito o abolito le imposte che troppo gravano sui contribuenti meno provveduti, o più disturbano la produzione od il commercio.”
PS: se tutti i liberali odierni fossero di questa statura, l’Italia sarebbe già salva.
Giampietro Pizzo
* Tutte le citazioni sono tratte da: Luigi Einaudi, “Principi di Scienza della Finanza”, Torino, 1948.
E così, mentre si susseguono mille consigli e innumerevoli ricette su cosa sarebbe meglio fare per rimettere in ordine i conti della nostra disastrata finanza pubblica, vale la pena prendere per un attimo la distanza dai fatti quotidiani e recuperare la migliore memoria del pensiero economico italiano.
Ecco una precisa descrizione (ex-ante) di come si è andato formando il nostro debito pubblico nelle parole di un grande economista e politico italiano, Luigi Einaudi.
“Supponiamo che uno Stato (…) voglia provvedere alle spese ordinarie col debito; e siano le spese ordinarie di un miliardo all’anno.
Il primo anno i contribuenti (supposto che si possano emettere titoli pubblici con una rendita perpetua del 5% contro un capitale sottoscritto di 100) sentono un beneficio poiché pagano 50 milioni d’imposta-interessi invece che un miliardo; ma il secondo anno già pagheranno 50 milioni per il debito di un miliardo dell’anno precedente e 50 milioni per il debito di un miliardo dell’anno. Nel terzo pagheranno 150 milioni, finché nel ventesimo anno dovranno pagare un miliardo di imposta-interessi sui 20 miliardi di debito accumulato in ossequio alla teoria; ed in seguito l’imposta-interessi continuamente crescerà, superando l’onere che i contribuenti dovrebbero sopportare se ogni anno avessero fatto fronte alle spese ordinarie con l’imposta.
Adunque fa d’uopo non esagerare nei prestiti pubblici, i quali devono essere conclusi esclusivamente per far fronte a delle spese veramente straordinarie.*”
Einaudi ricorda qui un sano e semplice principio di finanza pubblica: occorrono entrate ordinarie per spese ordinarie ed entrate straordinarie (imposte straordinarie o debito pubblico) per spese straordinarie (investimenti pubblici e/o spese eccezionali).
Giova ricordarlo in un Paese che ha trascurato gli investimenti pubblici essenziali (scuola e ricerca) e usato il debito per coprire le spese ordinarie (buone e cattive) e per sopperire alle mancate entrate ordinarie (elusione fiscale su taluni redditi e patrimoni ed elevatissima evasione fiscale ).
Giova ricordarlo nel momento in cui il Governo si appresta ad adottare misure tributarie che dovrebbero cominciare a rimettere i conti in ordine.
Ma di quali imposte ordinarie abbiamo bisogno? Una seconda citazione di Luigi Einaudi, a proposito di imposta patrimoniale, può ancora assisterci.
“L’imposta sul capitale o patrimonio complessivo del contribuente vuole essere il congegno correttore della sperequazione (ovvero: “ un sistema tributario che è considerato dai più come sperequato, perché tutte le fonti di reddito sono trattate alla medesima stregua, nonostante che la loro disponibilità sia variabile)”.
Infine, un ultimo pensiero va al purtroppo quasi certo aumento dell’IVA – imposta, ahinoi, facilmente riscuotibile (per chi la paga, ovvero per il consumatore) ma terribilmente regressiva (dato che grava maggiormente su chi meno ha). Una terza riflessione einaudiana sulla ricerca ossessiva degli avanzi (primari) di bilancio che speriamo ispiri ai nostri “tecnici” qualche esitazione in più.
“Prima di parlare di avanzo disponibile per ridurre il debito pubblico, bisogna avere perciò diminuito o abolito le imposte che troppo gravano sui contribuenti meno provveduti, o più disturbano la produzione od il commercio.”
PS: se tutti i liberali odierni fossero di questa statura, l’Italia sarebbe già salva.
Giampietro Pizzo
* Tutte le citazioni sono tratte da: Luigi Einaudi, “Principi di Scienza della Finanza”, Torino, 1948.
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venerdì 11 novembre 2011
Il Governo Goldman Sachs e i consoli Mario e Mario
Mi sembra ormai chiaro: il governo non lo decide il popolo sovrano; né sono i governi a nominare i governatori europei.
Le coincidenze, a volte, non sono casuali; anzi rivelano spesso vere e proprie relazioni causa-effetto.
Guardiamo ai fatti. L'ex- vice-presidente di Goldman Sachs, Mario Draghi, diventa prima Governatore di Bankitalia, poi Presidente della Banca Centrale Europea.
L' international advisor di Goldman Sachs, Mario Monti, viene ora indicato come il candidato più credibile a diventare Presidente del Consiglio italiano. Coincidenze? Dietrologie? Forse. Ma per fugare i nostri dubbi, il modo più semplice è che a una domanda diretta si possa avere una risposta esauriente.
Quali sono in questo momento gli interessi della banca d'affari Goldman Sachs in Europa? E come si sta comportando in queste ore nell'evoluzione della crisi finanziaria europea?
E ancora: quali sono stati, nel 2008, 2009, 2010 e 2011, gli atti dei nostri due super-Mario nelle loro funzioni direttive in Goldman Sachs? Come hanno separato e distinto in questi anni e in questi mesi i loro passati interessi privati dagli attuali e futuri interessi pubblici che saranno chiamati a rappresentare? Perché, purtroppo, non solo Berlusconi ha conflitti di interesse.
Sia chiaro: non siamo noi cittadini a pensare male; ma sono loro, per il ruolo che rivestono/rivestiranno, che ci devono spiegazioni. E dettagliate. Grazie.
Giampietro Pizzo
Le coincidenze, a volte, non sono casuali; anzi rivelano spesso vere e proprie relazioni causa-effetto.
Guardiamo ai fatti. L'ex- vice-presidente di Goldman Sachs, Mario Draghi, diventa prima Governatore di Bankitalia, poi Presidente della Banca Centrale Europea.
L' international advisor di Goldman Sachs, Mario Monti, viene ora indicato come il candidato più credibile a diventare Presidente del Consiglio italiano. Coincidenze? Dietrologie? Forse. Ma per fugare i nostri dubbi, il modo più semplice è che a una domanda diretta si possa avere una risposta esauriente.
Quali sono in questo momento gli interessi della banca d'affari Goldman Sachs in Europa? E come si sta comportando in queste ore nell'evoluzione della crisi finanziaria europea?
E ancora: quali sono stati, nel 2008, 2009, 2010 e 2011, gli atti dei nostri due super-Mario nelle loro funzioni direttive in Goldman Sachs? Come hanno separato e distinto in questi anni e in questi mesi i loro passati interessi privati dagli attuali e futuri interessi pubblici che saranno chiamati a rappresentare? Perché, purtroppo, non solo Berlusconi ha conflitti di interesse.
Sia chiaro: non siamo noi cittadini a pensare male; ma sono loro, per il ruolo che rivestono/rivestiranno, che ci devono spiegazioni. E dettagliate. Grazie.
Giampietro Pizzo
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martedì 8 novembre 2011
Prendersi cura
Non so che cosa accadrà domani a Berlusconi. Non credo sia indispensabile almanaccare in queste ore su quali saranno i nuovi equilibri politici che si determineranno dopo la fine di questo governo.
Non mi voglio neppure interrogare sulle possibili fortune della parte politica nella quale milito. Certo, mi auguro che la mia parte sia capace di interpretare al meglio il proprio ruolo; spero abbia la forza e la lucidità di rimettere in circolo quelle idee, quelle intelligenze e quei saperi, oggi così vilipesi ma così preziosi, così essenziali per la nostra vita.
Invece di fronte a quello che è accaduto di straordinario in questi anni non possiamo fare finta di nulla. Non possiamo ignorare il fatto che qualcosa di essenziale si è rotto nel nostro vivere insieme; qualcosa di determinante è venuto meno in quella che a volte un po’ pomposamente chiamiamo: convivenza civile.
Dobbiamo riflettere a fondo sui cambiamenti sociali, sulle mutazioni antropologiche che si sono prodotte. Non possiamo fare finta di nulla; non possiamo semplicemente pensare che tutto scivolerà via, nell’indistinto borbottio della cronaca.
Sono tragedie vere quelle che abbiamo sotto i nostri occhi: si chiamano povertà, solitudine, violenza, dissesto del territorio, morti.
Questi sono i dati veri con cui fare i conti. Una politica che non abbia il senso e la misura di queste cose non ha alcuna autorevolezza né capacità di rappresentazione. Affinché la politica torni a essere cosa grande, nobile - una cosa per la quale “valga la pena spendere la propria vita” - qualcosa di fondamentale e di preventivo va ricostruito.
Quel qualcosa di preventivo riguarda il nostro essere cittadini. Ha a che fare con il potere originario del cittadino: una persona cosciente del proprio essere, che riconosce la propria dimensione di vita, che sa qual è il peso della propria voce all’interno della comunità.
E’ vero, la democrazia è oggi in grande difficoltà; qualcuno pensa in modo sempre più insistente che il popolo non sia in grado di scegliere, di decidere del proprio destino.
Rossana Rossanda, qualche giorno fa, sul Manifesto, è arrivata a dire che è in atto un progetto politico sciagurato che ha come obiettivo quello di sciogliere il Popolo. Se Rossanda ha ragione, se la crisi della rappresentanza ha raggiunto questo stadio della crisi, allora qualcosa di inedito sta accadendo, e qualcosa di straordinario deve ancora accadere.
Giunti a questo punto o siamo in grado di riavviare un’autentica fase costitutiva oppure l’involuzione sarà inarrestabile.
Sia chiaro: ricostruire una sovranità popolare non è cosa ordinaria, banale. Occorre prima di tutto che il popolo si riconosca; occorre che la comunità ritrovi sé stessa. In questo non c’entra assolutamente nulla la dimensione locale, nazionale o sovranazionale delle decisioni. Senza comunità e senza territorio, nessuna democrazia resiste agli attacchi degli uragani internazionali; nessuna politica sopravvive alle zone grigie dell’anomia che rende obsoleti gli Stati sovrani, l’Unione Europea, le istituzioni globali.
Vario è il panorama europeo, contradditorio è il contesto delle grandi macroregioni del Mondo, ma da un punto fermo occorre partire. E questo punto, per quel ci riguarda, siamo noi, qui, in Italia, in questo inizio di secolo per molti versi già logoro.
Una prima, indispensabile, per nulla istintiva risposta, è quella di prenderci cura di noi stessi. Prenderci davvero cura di noi significa andare oltre la dimensione idiotistica che ha segnato gli ultimi venti anni. Prenderci cura di noi significa uscire letteralmente fuori, per guardare in faccia il mondo della nostra prossimità. Com’è il Mondo davanti casa? Il mio, ad esempio, è spesso pieno di scoasse, piccole e grandi, lasciate da cittadini ignari che sanno quello che consumano ma non quello che sono. Il mio Mondo è sempre più pieno di indifferenza per come quel fragile ecosistema che si chiama Laguna è trattato. Il mio Mondo è a volte fatto di persone infelici che annaspano nella loro esistenza piena di difficoltà materiali ed emotive. E poi, il mio Mondo non è molto diverso dal vostro Mondo.
Non occorre perciò andare oltre - anche se molti di noi percorrono tutti i giorni altri territori regionali e nazionali; navigano quotidianamente nella Rete e magari, di tanto in tanto, viaggiano all’estero. E’ qui, per ora, davanti casa, che dobbiamo misurarci. Senza alibi né escamotage.
La dimensione alienante delle nostre vite ci proietta troppo spesso oltre la nostra vita. Malati di presbiopia vediamo solo più in là, e mai dove dovremmo davvero vedere. Quel Mondo non visto, per noi si chiama Laguna, per altri si chiama Genova. Per noi si chiama una città che va in malora nell’assedio di piccoli e grandi pescecani; per altri si chiama degrado e abbandono, come nei territori della Camorra.
Prendersi cura della nostra vita “larga”: è questo l’unico modo per riaprire il futuro, per poter giocare una partita non truccata. Altrimenti rimangono due miserande opzioni: o diventare scimmie cieche-mute-sorde che negano alla radice il proprio essere, oppure - e non so quale sia il destino più tragico - abbandonarsi alla dolorosa frustrazione dello spettatore, che è lucido ma inesorabilmente impotente. Lucido nel dolore, lucido nella fine.
Dite, diciamo, ai nostri figli, a noi stessi, di uscire e di spazzare, lavare, con un grande atto simbolico, il pezzo di calle, di fondamenta che abbiamo davanti casa. Da lì, potremo poi andare un po’ più in là. Qualcuno andrà a raccogliere il fango amaro che ha invaso la città di Genova, altri staranno a presidiare gli scani del Delta del Po contro le Centrali della Morte; altri ancora a ridare vita, liberando interi popoli dalla speculazione, alle tante Magliane di Roma o agli altrettanti Zen di Palermo.
Solo dopo questa rioccupazione profonda e sistematica dei nostri territori, delle nostre vite civili, saremo pronti a occupare, in modo definitivo ed efficace, i Palazzi delle Istituzioni.
Sia chiaro: nessuna gradualità, nessuno si illuda su una politica dei due tempi, perché i tempi di questa nuova partecipazione, di questo nuovo essere italiano potrebbero essere molto brevi, ma necessari.
Per pulire una piazza invece di divellere un sanpietrino; per piantare un fiore invece di imbrattare un muro o di buttare a terra una bottiglia vuota. Per salvare una riva o rifare un muro a secco.
Perché noi vogliamo essere rivoluzionari. E allora voi, speculatori e azzeccagarbugli di ogni risma, dovrete semplicemente tremare.
Giampietro Pizzo
Non mi voglio neppure interrogare sulle possibili fortune della parte politica nella quale milito. Certo, mi auguro che la mia parte sia capace di interpretare al meglio il proprio ruolo; spero abbia la forza e la lucidità di rimettere in circolo quelle idee, quelle intelligenze e quei saperi, oggi così vilipesi ma così preziosi, così essenziali per la nostra vita.
Invece di fronte a quello che è accaduto di straordinario in questi anni non possiamo fare finta di nulla. Non possiamo ignorare il fatto che qualcosa di essenziale si è rotto nel nostro vivere insieme; qualcosa di determinante è venuto meno in quella che a volte un po’ pomposamente chiamiamo: convivenza civile.
Dobbiamo riflettere a fondo sui cambiamenti sociali, sulle mutazioni antropologiche che si sono prodotte. Non possiamo fare finta di nulla; non possiamo semplicemente pensare che tutto scivolerà via, nell’indistinto borbottio della cronaca.
Sono tragedie vere quelle che abbiamo sotto i nostri occhi: si chiamano povertà, solitudine, violenza, dissesto del territorio, morti.
Questi sono i dati veri con cui fare i conti. Una politica che non abbia il senso e la misura di queste cose non ha alcuna autorevolezza né capacità di rappresentazione. Affinché la politica torni a essere cosa grande, nobile - una cosa per la quale “valga la pena spendere la propria vita” - qualcosa di fondamentale e di preventivo va ricostruito.
Quel qualcosa di preventivo riguarda il nostro essere cittadini. Ha a che fare con il potere originario del cittadino: una persona cosciente del proprio essere, che riconosce la propria dimensione di vita, che sa qual è il peso della propria voce all’interno della comunità.
E’ vero, la democrazia è oggi in grande difficoltà; qualcuno pensa in modo sempre più insistente che il popolo non sia in grado di scegliere, di decidere del proprio destino.
Rossana Rossanda, qualche giorno fa, sul Manifesto, è arrivata a dire che è in atto un progetto politico sciagurato che ha come obiettivo quello di sciogliere il Popolo. Se Rossanda ha ragione, se la crisi della rappresentanza ha raggiunto questo stadio della crisi, allora qualcosa di inedito sta accadendo, e qualcosa di straordinario deve ancora accadere.
Giunti a questo punto o siamo in grado di riavviare un’autentica fase costitutiva oppure l’involuzione sarà inarrestabile.
Sia chiaro: ricostruire una sovranità popolare non è cosa ordinaria, banale. Occorre prima di tutto che il popolo si riconosca; occorre che la comunità ritrovi sé stessa. In questo non c’entra assolutamente nulla la dimensione locale, nazionale o sovranazionale delle decisioni. Senza comunità e senza territorio, nessuna democrazia resiste agli attacchi degli uragani internazionali; nessuna politica sopravvive alle zone grigie dell’anomia che rende obsoleti gli Stati sovrani, l’Unione Europea, le istituzioni globali.
Vario è il panorama europeo, contradditorio è il contesto delle grandi macroregioni del Mondo, ma da un punto fermo occorre partire. E questo punto, per quel ci riguarda, siamo noi, qui, in Italia, in questo inizio di secolo per molti versi già logoro.
Una prima, indispensabile, per nulla istintiva risposta, è quella di prenderci cura di noi stessi. Prenderci davvero cura di noi significa andare oltre la dimensione idiotistica che ha segnato gli ultimi venti anni. Prenderci cura di noi significa uscire letteralmente fuori, per guardare in faccia il mondo della nostra prossimità. Com’è il Mondo davanti casa? Il mio, ad esempio, è spesso pieno di scoasse, piccole e grandi, lasciate da cittadini ignari che sanno quello che consumano ma non quello che sono. Il mio Mondo è sempre più pieno di indifferenza per come quel fragile ecosistema che si chiama Laguna è trattato. Il mio Mondo è a volte fatto di persone infelici che annaspano nella loro esistenza piena di difficoltà materiali ed emotive. E poi, il mio Mondo non è molto diverso dal vostro Mondo.
Non occorre perciò andare oltre - anche se molti di noi percorrono tutti i giorni altri territori regionali e nazionali; navigano quotidianamente nella Rete e magari, di tanto in tanto, viaggiano all’estero. E’ qui, per ora, davanti casa, che dobbiamo misurarci. Senza alibi né escamotage.
La dimensione alienante delle nostre vite ci proietta troppo spesso oltre la nostra vita. Malati di presbiopia vediamo solo più in là, e mai dove dovremmo davvero vedere. Quel Mondo non visto, per noi si chiama Laguna, per altri si chiama Genova. Per noi si chiama una città che va in malora nell’assedio di piccoli e grandi pescecani; per altri si chiama degrado e abbandono, come nei territori della Camorra.
Prendersi cura della nostra vita “larga”: è questo l’unico modo per riaprire il futuro, per poter giocare una partita non truccata. Altrimenti rimangono due miserande opzioni: o diventare scimmie cieche-mute-sorde che negano alla radice il proprio essere, oppure - e non so quale sia il destino più tragico - abbandonarsi alla dolorosa frustrazione dello spettatore, che è lucido ma inesorabilmente impotente. Lucido nel dolore, lucido nella fine.
Dite, diciamo, ai nostri figli, a noi stessi, di uscire e di spazzare, lavare, con un grande atto simbolico, il pezzo di calle, di fondamenta che abbiamo davanti casa. Da lì, potremo poi andare un po’ più in là. Qualcuno andrà a raccogliere il fango amaro che ha invaso la città di Genova, altri staranno a presidiare gli scani del Delta del Po contro le Centrali della Morte; altri ancora a ridare vita, liberando interi popoli dalla speculazione, alle tante Magliane di Roma o agli altrettanti Zen di Palermo.
Solo dopo questa rioccupazione profonda e sistematica dei nostri territori, delle nostre vite civili, saremo pronti a occupare, in modo definitivo ed efficace, i Palazzi delle Istituzioni.
Sia chiaro: nessuna gradualità, nessuno si illuda su una politica dei due tempi, perché i tempi di questa nuova partecipazione, di questo nuovo essere italiano potrebbero essere molto brevi, ma necessari.
Per pulire una piazza invece di divellere un sanpietrino; per piantare un fiore invece di imbrattare un muro o di buttare a terra una bottiglia vuota. Per salvare una riva o rifare un muro a secco.
Perché noi vogliamo essere rivoluzionari. E allora voi, speculatori e azzeccagarbugli di ogni risma, dovrete semplicemente tremare.
Giampietro Pizzo
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lunedì 26 settembre 2011
Crisi e paradossi finanziari. Ovvero come uscire dal pantano?
Dopo il tracollo del settembre 2008, la finanza pubblica dell’Occidente ha iniettato nel sistema bancario enormi quantità di denaro per far fronte alla crisi di liquidità che l’esplodere della bolla speculativa aveva generato. Mai nel dopoguerra si era assistito a un piano di salvataggio di così ampie e sistemiche proporzioni realizzato a suon di miliardi di euro/dollari per ricapitalizzare il sistema bancario americano ed europeo. Con quella manovra si voleva evitare che il collasso del sistema finanziario trascinasse con sé l’intera economia mondiale dando il via a una recessione analoga a quella degli anni ’30.
Nel 2010, nel giro di pochi mesi, i principali istituti finanziari e bancari sono tornati a macinare profitti, grazie agli impieghi realizzati proprio con la liquidità addizionale messa a disposizione dagli Stati. Impieghi finanziari che solo in minima parte hanno favorito progetti imprenditoriali e industriali diretti. La stragrande maggioranza di quelle risorse sono invece tornate – come se nulla fosse successo pochi mesi prima – a puntare sui prodotti offerti dalla finanza speculativa e d’azzardo.
Insomma, mentre gli Stati s’indebitavano, buttando nel cestino, nel volgere di pochi giorni, decenni di dichiarazioni solenni sull’inderogabilità dei patti di stabilità, stracciando impegni sovranazionali basati sul rigido rispetto di politiche monetarie restrittive quale unico baluardo contro l’instabilità (chi si ricorda più dei vincoli di Maastricht oggi?), ebbene di fronte a questa svolta epocale, le Banche con totale non chalance confermavano quelle stesse regole di gestione e di massimizzazione dei profitti che le avevano condotte tra il 2007 e il 2009 sull’orlo della bancarotta.
Per usare un’immagine speriamo efficace, la storia a cui abbiamo assistito nell’ultimo biennio è quella di un naufrago che, salvato dai flutti nei quali, a scienza certa, stava affogando, appena riprende fiato, non trova nulla di meglio che correre a comprare una pistola con la quale uccidere il proprio salvatore. Basta guardare ai crudi fatti perché ne risulti confermata questa paradossale ma purtroppo autentica storia.
Le decisioni di investimento, di impiego e di smobilizzo messi in atto dagli operatori finanziari, direttamente o indirettamente, corrispondono a questa immagine: infatti un buon numero di queste istituzioni hanno puntato sul fallimento di alcuni Stati dell’Unione europea, gli stessi che pochi mesi prima avevano anch’essi deciso il loro salvataggio.
E’ un dato di fatto che dagli attacchi speculativi a Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia – i cosiddetti PIGS - alcuni investitori ribassisti hanno ricavato ingenti margini. Dove sono ora finite quelle prese di profitto? Certamente al sicuro, in qualche banca svizzera o in qualche fondo off-shore, o semplicemente su altre piazze finanziarie mondiali considerate più sicure. L’effetto cumulativo delle ondate speculative torna ora come un boomerang e sembra non voler risparmiare nessuno.
Così, a piangere e a lamentarsi, oltre ai piccoli risparmiatori, ai dipendenti pubblici e privati, ai precari, ai disoccupati, ai giovani e ai pensionati, ecco aggiungersi, ancora una volta, le banche, europee e americane senza distinzione. Alcune piangono di più, ad esempio le francesi e le tedesche, e altre di meno.
Di che si lamentano? Le banche si lamentano della qualità dei loro portafogli, pieni zeppi di titoli di stato dei PIGS, comprati non secoli fa ma pochi mesi fa o anche solo l’altro ieri, allettate dai considerevoli rendimenti che la speculazione ha originato. Ma se domani la Grecia prima e dopodomani l’Italia dichiarassero lo stato di default, quegli attivi diventerebbero automaticamente carta straccia.
Qual è allora l’ultima trovata del G20 e del Fondo Monetario Internazionale? Creare un Fondo salva-Stati che entrando nel capitale delle Banche permetta loro di assorbire le perdite che si creeranno quando quei titoli del debito pubblico non varranno più nulla.
Sorge subito un dubbio: ma perché se si devono salvare gli Stati, si salvano innanzitutto le banche? Non sarebbe più semplice con l’emissione di eurobond sostituire in parte i titoli nazionali rendendo quel debito sovrano meno rischioso?
E a proposito di banche, non è proprio per il fatto che i titoli dei PIGS sono così rischiosi che esse, in quanto principali investitori istituzionali, ricevono per la loro sottoscrizione tassi di interesse stratosferici, del 4, 10 e sino al 20% in più degli interessi pagati sui titoli tedeschi?
Del resto, se si trattasse di debito privato saremmo già oltre il tasso di usura!
Certo, con l’intervento europeo, scomparirebbe il rischio (perché pagato dal pubblico) e quei tassi dovrebbero ritornare su livelli normali – salvo che continueremmo a non sapere che fine hanno fatto le prese di profitto.
E sia, diciamo che questo ennesimo sacrificio pubblico mira a rimettere in ordine le cose, a evitare il peggio. Ma allora, ci chiediamo: chi ci garantisce che la storia non si ripeterà?
Perché non si ripeta la beffa della capitalizzazione del 2009, quali condizionalità saranno imposte alle banche, quale sarà il potere di veto dell’azionista pubblico sulle scelte di investimento e di gestione dei banchieri? Oppure, ancora una volta, in nome della “sacralità del mercato” le nuove risorse bancarie torneranno ad abbattersi, come letali armi di distruzione di massa, sulla vita dei cittadini che gli stessi Governi dovrebbero tutelare?
Questa nuova fase sarebbe doppiamente fatale – e così per certi versi è già negli annunci: da un lato, si scatenerebbe un’ondata supplementare di privatizzazioni per saldare i nuovi debiti originati dal Fondo salva-banche e, dall’altro, quelle risorse sarebbero impiegate proprio per comprare a prezzi stracciati interi comparti del patrimonio pubblico.
L’inevitabile risultato sarebbe il secco impoverimento della popolazione e il corrispettivo aumento del tasso di finanza cattiva nei gangli dell’economia mondiale.
Il paradosso è dunque quello di un mondo alla rovescia in cui più ti comporti male e più vieni premiato? Purtroppo, la beffa è che in nome dell’infallibilità dei mercati, le sanzioni applicate appaiono totalmente asimmetriche: se il debito pubblico non è credibile, bisogna licenziare, tagliare, vendere; se invece la finanza privata non sta in piedi, allora va salvata, perché altrimenti il panico dei mercati si potrebbe estendere a macchia d’olio, eccetera, eccetera.
Morale lapalissiana: se il mondo è storto, vuol dire che non è dritto. Occorre dunque ricostruire un mondo equilibrato e portatore di un’etica degna di questo nome.
Le banche debbono semplicemente tornare a fare il loro mestiere: cioè utilizzare i risparmi delle persone per concedere crediti a chi ha progetti validi ed è capace di produrre lavoro e ricchezza. Né più né meno che questo.
I Governi, d’altro canto, hanno il sacrosanto dovere di consolidare il debito storico ormai ingestibile, un fardello che non può pesare ad infinitum sul futuro nostro e dei nostri figli.
In un mondo così complesso, le cose a volte possono essere a tratti meravigliosamente lineari e comprensibili. Renderle tali è compito della Politica, ottemperando ai propri fini che sono quelli dell’interesse pubblico e non quello di pochi, voraci e autodistruttivi pescecani.
Giampietro Pizzo
Nel 2010, nel giro di pochi mesi, i principali istituti finanziari e bancari sono tornati a macinare profitti, grazie agli impieghi realizzati proprio con la liquidità addizionale messa a disposizione dagli Stati. Impieghi finanziari che solo in minima parte hanno favorito progetti imprenditoriali e industriali diretti. La stragrande maggioranza di quelle risorse sono invece tornate – come se nulla fosse successo pochi mesi prima – a puntare sui prodotti offerti dalla finanza speculativa e d’azzardo.
Insomma, mentre gli Stati s’indebitavano, buttando nel cestino, nel volgere di pochi giorni, decenni di dichiarazioni solenni sull’inderogabilità dei patti di stabilità, stracciando impegni sovranazionali basati sul rigido rispetto di politiche monetarie restrittive quale unico baluardo contro l’instabilità (chi si ricorda più dei vincoli di Maastricht oggi?), ebbene di fronte a questa svolta epocale, le Banche con totale non chalance confermavano quelle stesse regole di gestione e di massimizzazione dei profitti che le avevano condotte tra il 2007 e il 2009 sull’orlo della bancarotta.
Per usare un’immagine speriamo efficace, la storia a cui abbiamo assistito nell’ultimo biennio è quella di un naufrago che, salvato dai flutti nei quali, a scienza certa, stava affogando, appena riprende fiato, non trova nulla di meglio che correre a comprare una pistola con la quale uccidere il proprio salvatore. Basta guardare ai crudi fatti perché ne risulti confermata questa paradossale ma purtroppo autentica storia.
Le decisioni di investimento, di impiego e di smobilizzo messi in atto dagli operatori finanziari, direttamente o indirettamente, corrispondono a questa immagine: infatti un buon numero di queste istituzioni hanno puntato sul fallimento di alcuni Stati dell’Unione europea, gli stessi che pochi mesi prima avevano anch’essi deciso il loro salvataggio.
E’ un dato di fatto che dagli attacchi speculativi a Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia – i cosiddetti PIGS - alcuni investitori ribassisti hanno ricavato ingenti margini. Dove sono ora finite quelle prese di profitto? Certamente al sicuro, in qualche banca svizzera o in qualche fondo off-shore, o semplicemente su altre piazze finanziarie mondiali considerate più sicure. L’effetto cumulativo delle ondate speculative torna ora come un boomerang e sembra non voler risparmiare nessuno.
Così, a piangere e a lamentarsi, oltre ai piccoli risparmiatori, ai dipendenti pubblici e privati, ai precari, ai disoccupati, ai giovani e ai pensionati, ecco aggiungersi, ancora una volta, le banche, europee e americane senza distinzione. Alcune piangono di più, ad esempio le francesi e le tedesche, e altre di meno.
Di che si lamentano? Le banche si lamentano della qualità dei loro portafogli, pieni zeppi di titoli di stato dei PIGS, comprati non secoli fa ma pochi mesi fa o anche solo l’altro ieri, allettate dai considerevoli rendimenti che la speculazione ha originato. Ma se domani la Grecia prima e dopodomani l’Italia dichiarassero lo stato di default, quegli attivi diventerebbero automaticamente carta straccia.
Qual è allora l’ultima trovata del G20 e del Fondo Monetario Internazionale? Creare un Fondo salva-Stati che entrando nel capitale delle Banche permetta loro di assorbire le perdite che si creeranno quando quei titoli del debito pubblico non varranno più nulla.
Sorge subito un dubbio: ma perché se si devono salvare gli Stati, si salvano innanzitutto le banche? Non sarebbe più semplice con l’emissione di eurobond sostituire in parte i titoli nazionali rendendo quel debito sovrano meno rischioso?
E a proposito di banche, non è proprio per il fatto che i titoli dei PIGS sono così rischiosi che esse, in quanto principali investitori istituzionali, ricevono per la loro sottoscrizione tassi di interesse stratosferici, del 4, 10 e sino al 20% in più degli interessi pagati sui titoli tedeschi?
Del resto, se si trattasse di debito privato saremmo già oltre il tasso di usura!
Certo, con l’intervento europeo, scomparirebbe il rischio (perché pagato dal pubblico) e quei tassi dovrebbero ritornare su livelli normali – salvo che continueremmo a non sapere che fine hanno fatto le prese di profitto.
E sia, diciamo che questo ennesimo sacrificio pubblico mira a rimettere in ordine le cose, a evitare il peggio. Ma allora, ci chiediamo: chi ci garantisce che la storia non si ripeterà?
Perché non si ripeta la beffa della capitalizzazione del 2009, quali condizionalità saranno imposte alle banche, quale sarà il potere di veto dell’azionista pubblico sulle scelte di investimento e di gestione dei banchieri? Oppure, ancora una volta, in nome della “sacralità del mercato” le nuove risorse bancarie torneranno ad abbattersi, come letali armi di distruzione di massa, sulla vita dei cittadini che gli stessi Governi dovrebbero tutelare?
Questa nuova fase sarebbe doppiamente fatale – e così per certi versi è già negli annunci: da un lato, si scatenerebbe un’ondata supplementare di privatizzazioni per saldare i nuovi debiti originati dal Fondo salva-banche e, dall’altro, quelle risorse sarebbero impiegate proprio per comprare a prezzi stracciati interi comparti del patrimonio pubblico.
L’inevitabile risultato sarebbe il secco impoverimento della popolazione e il corrispettivo aumento del tasso di finanza cattiva nei gangli dell’economia mondiale.
Il paradosso è dunque quello di un mondo alla rovescia in cui più ti comporti male e più vieni premiato? Purtroppo, la beffa è che in nome dell’infallibilità dei mercati, le sanzioni applicate appaiono totalmente asimmetriche: se il debito pubblico non è credibile, bisogna licenziare, tagliare, vendere; se invece la finanza privata non sta in piedi, allora va salvata, perché altrimenti il panico dei mercati si potrebbe estendere a macchia d’olio, eccetera, eccetera.
Morale lapalissiana: se il mondo è storto, vuol dire che non è dritto. Occorre dunque ricostruire un mondo equilibrato e portatore di un’etica degna di questo nome.
Le banche debbono semplicemente tornare a fare il loro mestiere: cioè utilizzare i risparmi delle persone per concedere crediti a chi ha progetti validi ed è capace di produrre lavoro e ricchezza. Né più né meno che questo.
I Governi, d’altro canto, hanno il sacrosanto dovere di consolidare il debito storico ormai ingestibile, un fardello che non può pesare ad infinitum sul futuro nostro e dei nostri figli.
In un mondo così complesso, le cose a volte possono essere a tratti meravigliosamente lineari e comprensibili. Renderle tali è compito della Politica, ottemperando ai propri fini che sono quelli dell’interesse pubblico e non quello di pochi, voraci e autodistruttivi pescecani.
Giampietro Pizzo
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lunedì 19 settembre 2011
Il Paese non può aspettare
I provvedimenti contenuti nella manovra finanziaria costituiscono il punto di non ritorno della separazione tra il Paese reale e le istituzioni pubbliche.
Il Governo, con le sue scelte scellerate, con il coacervo di interessi, di pressioni e di condizionamenti torbidi e immorali che lo contraddistinguono, non rappresenta più la volontà della maggioranza degli italiani ma solo l’arrogante disperazione di un blocco politico in disfacimento, vuoto ormai di ogni legittimità costituzionale e sociale.
Sono parole pesanti queste, ma pesantissima e straordinaria è la situazione politica e sociale in cui il Paese si trova.
Lo sciopero del 6 settembre ha mobilitato ancora una volta le forze vive dell’Italia: i lavoratori e i giovani che non si arrendono allo sfascio e al collasso sociale. Ora a quella domanda di cambiamento, a quella voce di popolo, occorre rispondere, con determinazione e con chiarezza, subito. Non è più tempo per mediazioni, esitazioni o equilibrismi.
Occorre che un ritrovato soggetto politico – dentro e fuori dai partiti politici della sinistra – si alzi e dica con fermezza che cosa fare. Dica che cosa bisogna fare per salvare le istituzioni; che cosa si può fare per rimettere i conti pubblici in ordine; che cosa è possibile fare per proteggere il lavoro dalla precarietà e la vita delle persone dagli sciacalli della speculazione e della finanza assassina.
Abbiamo bisogno di un soggetto politico con la forza e l’autorevolezza per dire:
“ Caro Presidente Napolitano, difendere la Costituzione della Repubblica significa ridare subito la parola agli italiani, perché è nel Paese che la maggioranza parlamentare non esiste più.
Caro Governatore Draghi, rispondere davvero ai mercati significa fermare subito le speculazioni finanziarie e non affondare il Paese nella recessione e nella disperazione.”
Su poche scelte, dirette e chiare, si può costruire – ma bisogna fare presto! - un progetto di Governo credibile e rinnovato; su pochi punti fermi è necessario fare esprimere la volontà popolare.
O i partiti di opposizione colgono davvero la portata del cataclisma in atto, oppure non ci sarà speranza per nessuno e le fruste logiche della bieca conservazione e dell’auto-riproduzione dell’attuale ceto politico suoneranno il de profundis di ogni possibilità di cambiamento.
Nei mesi scorsi, con le elezioni amministrative e con i referendum sull’acqua e sul nucleare, i cittadini italiani hanno detto con chiarezza qual è il cambiamento che attendono.
Sembrano passati decenni da allora, da quella rinnovata e vitale passione civile: il dibattito politico è ripiombato nel grigiore, nell’idiotismo, nella vacuità a cui ci ha abituato il berlusconismo. Ma la responsabilità più grossa – perché è in quella direzione che guardano le passioni civili e le domande di cambiamento – è quella dei partiti di opposizione.
Costruire un programma di governo e un progetto di società significa rispondere ad alcune fondamentali domande su quale architettura debba avere la società italiana degli anni a venire.
Proviamo a formulare alcuni di questi quesiti:
L’Italia di domani sarà fondata sul lavoro o sulla rendita?
Si valorizzeranno i beni comuni o si privatizzerà in modo irreversibile ogni sfera della vita umana – dalla salute alla conoscenza, dalla mobilità all’abitare, dalla cultura all’ambiente?
L’Italia di domani sarà un Paese povero con una élite straricca, rinchiusa nei propri fortini dorati, oppure costruiremo un’Italia delle opportunità per tutti, un’Italia libera, aperta e giusta?
Il Paese che verrà sarà fondato sui diritti oppure sui privilegi, sulle regole non scritte, sullo scambio politico?
Un Paese che investe nella cultura, nella scuola, che costruisce la Pace oppure che continua a destinare ingentissime risorse pubbliche all’economia di guerra?
L’Italia di domani sarà un Paese devastato, dipendente e brutto o un Paese bello, sostenibile e umano?
Non sono, cari Bersani, Di Pietro, Vendola, domande retoriche queste ma domande pressanti, assillanti, drammatiche, perché ne va della vita nuda di ognuno di noi.
E allora occorrono risposte chiare, immediate, portatrici di un fare scevro di ambiguità, risposte attorno alle quali misurare il consenso e costruire un’unità di intenti.
Certo, il mondo è complesso, contraddittorio, liquido, ma in tempi straordinari, chi fa Politica deve segnare una direzione, dare valore e senso all’agire collettivo, riaprire lo spazio della volontà e del futuro. Altrimenti, davvero la Politica muore. Altrimenti, davanti avremo le macerie della frustrazione, degli interessi immediati, crudi e violenti, dove ognuno di noi cercherà una propria personale e disperata salvezza, per essere infine sommersi dalla tragedia di un Paese perduto.
Possiamo ancora evitare questa catastrofe.
Ma dipende da tutti noi. Perché il tempo è adesso. Perché il Paese non può aspettare.
SEL Venezia
Il Governo, con le sue scelte scellerate, con il coacervo di interessi, di pressioni e di condizionamenti torbidi e immorali che lo contraddistinguono, non rappresenta più la volontà della maggioranza degli italiani ma solo l’arrogante disperazione di un blocco politico in disfacimento, vuoto ormai di ogni legittimità costituzionale e sociale.
Sono parole pesanti queste, ma pesantissima e straordinaria è la situazione politica e sociale in cui il Paese si trova.
Lo sciopero del 6 settembre ha mobilitato ancora una volta le forze vive dell’Italia: i lavoratori e i giovani che non si arrendono allo sfascio e al collasso sociale. Ora a quella domanda di cambiamento, a quella voce di popolo, occorre rispondere, con determinazione e con chiarezza, subito. Non è più tempo per mediazioni, esitazioni o equilibrismi.
Occorre che un ritrovato soggetto politico – dentro e fuori dai partiti politici della sinistra – si alzi e dica con fermezza che cosa fare. Dica che cosa bisogna fare per salvare le istituzioni; che cosa si può fare per rimettere i conti pubblici in ordine; che cosa è possibile fare per proteggere il lavoro dalla precarietà e la vita delle persone dagli sciacalli della speculazione e della finanza assassina.
Abbiamo bisogno di un soggetto politico con la forza e l’autorevolezza per dire:
“ Caro Presidente Napolitano, difendere la Costituzione della Repubblica significa ridare subito la parola agli italiani, perché è nel Paese che la maggioranza parlamentare non esiste più.
Caro Governatore Draghi, rispondere davvero ai mercati significa fermare subito le speculazioni finanziarie e non affondare il Paese nella recessione e nella disperazione.”
Su poche scelte, dirette e chiare, si può costruire – ma bisogna fare presto! - un progetto di Governo credibile e rinnovato; su pochi punti fermi è necessario fare esprimere la volontà popolare.
O i partiti di opposizione colgono davvero la portata del cataclisma in atto, oppure non ci sarà speranza per nessuno e le fruste logiche della bieca conservazione e dell’auto-riproduzione dell’attuale ceto politico suoneranno il de profundis di ogni possibilità di cambiamento.
Nei mesi scorsi, con le elezioni amministrative e con i referendum sull’acqua e sul nucleare, i cittadini italiani hanno detto con chiarezza qual è il cambiamento che attendono.
Sembrano passati decenni da allora, da quella rinnovata e vitale passione civile: il dibattito politico è ripiombato nel grigiore, nell’idiotismo, nella vacuità a cui ci ha abituato il berlusconismo. Ma la responsabilità più grossa – perché è in quella direzione che guardano le passioni civili e le domande di cambiamento – è quella dei partiti di opposizione.
Costruire un programma di governo e un progetto di società significa rispondere ad alcune fondamentali domande su quale architettura debba avere la società italiana degli anni a venire.
Proviamo a formulare alcuni di questi quesiti:
L’Italia di domani sarà fondata sul lavoro o sulla rendita?
Si valorizzeranno i beni comuni o si privatizzerà in modo irreversibile ogni sfera della vita umana – dalla salute alla conoscenza, dalla mobilità all’abitare, dalla cultura all’ambiente?
L’Italia di domani sarà un Paese povero con una élite straricca, rinchiusa nei propri fortini dorati, oppure costruiremo un’Italia delle opportunità per tutti, un’Italia libera, aperta e giusta?
Il Paese che verrà sarà fondato sui diritti oppure sui privilegi, sulle regole non scritte, sullo scambio politico?
Un Paese che investe nella cultura, nella scuola, che costruisce la Pace oppure che continua a destinare ingentissime risorse pubbliche all’economia di guerra?
L’Italia di domani sarà un Paese devastato, dipendente e brutto o un Paese bello, sostenibile e umano?
Non sono, cari Bersani, Di Pietro, Vendola, domande retoriche queste ma domande pressanti, assillanti, drammatiche, perché ne va della vita nuda di ognuno di noi.
E allora occorrono risposte chiare, immediate, portatrici di un fare scevro di ambiguità, risposte attorno alle quali misurare il consenso e costruire un’unità di intenti.
Certo, il mondo è complesso, contraddittorio, liquido, ma in tempi straordinari, chi fa Politica deve segnare una direzione, dare valore e senso all’agire collettivo, riaprire lo spazio della volontà e del futuro. Altrimenti, davvero la Politica muore. Altrimenti, davanti avremo le macerie della frustrazione, degli interessi immediati, crudi e violenti, dove ognuno di noi cercherà una propria personale e disperata salvezza, per essere infine sommersi dalla tragedia di un Paese perduto.
Possiamo ancora evitare questa catastrofe.
Ma dipende da tutti noi. Perché il tempo è adesso. Perché il Paese non può aspettare.
SEL Venezia
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lunedì 8 agosto 2011
Economisti ed economisti
Mi è capitato di leggere, a poche ore di distanza, il punto di vista di due autorevoli economisti sulla crisi globale che stiamo vivendo.
Il primo articolo, a firma di Paul Krugman, sul New York Times del 5 agosto 2011, dal titolo “Le preoccupazioni sbagliate”, mette il dito nella piaga dell’economia americana: la recessione e la dilagante disoccupazione. Il suo “j’accuse” è chiarissimo: l’amministrazione Obama, succube del conservatorismo americano, ha continuato negli ultimi tempi a occuparsi e a preoccuparsi solo di inflazione e di stabilità fiananziaria - l’ “ossessione del deficit”, come la definisce in modo secco ma efficace Krugman –, mentre i cittadini americani erano sempre più in difficoltà: senza soldi e senza lavoro. Il giudizio di Krugman è lucido e diritto: senza crescita e senza occupazione nessuna stabilità finanziaria sarà tale.
Il secondo articolo, a firma di Mario Monti, sul Corriere della Sera del 7 agosto 2011, dal titolo “Il podestà forestiero”, ricorda subito, ai pochi distratti, la fede piena e incondizionata che nutre nei mercati l’autorevole economista nostrano. Una fede che lo porta a fare addirittura proprio il titolo di “mercatista”. Ma soprattutto ad accogliere con entusiasmo le “misure impopolari, ma in realtà positive per gli italiani che verranno” che giungono dai mercati e dall’Europa. Decisioni – sottolinea ancora Monti – prese da un “governo tecnico sopranazionale”. Misure figlie di un “imperativo della stabilità” sacrosanto e necessario. Ora, assunti con responsabilità questi “vincoli esterni”, spetterà – conclude Monti – alla politica italiana disegnare il proprio impegno per la crescita.
Perché così dissonanti questi articoli? Perché così lontani nell’analisi dei problemi e nel sentire i disagi sociali delle rispettive comunità americana e italiana? Perché così opposte le priorità da assegnare alle nostre economie?
Stiamo forse parlando di due mondi distinti o di un unico Mondo – ahimé - in crisi?
Perché oltre Atlantico la crescita è così chiaramente alternativa alle politiche di contenimento del bilancio e alla stabilità monetaria, mentre in Europa potremmo prima tagliare la spesa e poi tranquillamente crescere?
C’è qualcosa di marcio in Danimarca! Qualcosa naturalmente non va in almeno uno dei due ragionamenti.
Quel po’ di macroeconomia che ho imparato nelle aule universitarie mi dice che, a naso, ha ragione Krugman, almeno nel breve termine – e dato che tutta la partita purtroppo si gioca nel breve, nel brevissimo termine…
Queste sono le scelte: o si tutela in primis il lavoro, il potere di acquisto dei lavoratori e delle famiglie o la stabilità, che si raggiungerà forse domani, sarà tristemente inutile. Una soluzione che giungerà quando il paziente sarà ormai cadavere; anzi una soluzione che ne avrà provocato la morte.
E’ cosciente di questo Mario Monti? Si rendono conto i nostri “tecnici” nostrani dello stato in cui versa davvero l’Italia che lavora, o che vorrebbe lavorare e/o che vorrebbe consumare quanto serve per vivere dignitosamente?
Oppure quello che conta è “solo” tranquillizzare i mercati, e poi si vedrà?
“Gli italiani che verranno” non saranno, caro Professor Monti, tutti uguali, perché da questa crisi alcuni usciranno vivi ed altri no. E allora, mentre i “tecnici” preparano nuovi tagli alla spesa sociale, nuovi tagli ai servizi pubblici o ancora, come proposto da un suo esimio collega della Cattolica di Milano, Alberto Quadrio Curzio, un aumento dell’IVA che colpirà solo e unicamente la spesa quotidiana delle famiglie, è ben difficile intravedere o anche solo immaginare la crescita dell’economia italiana.
Ma, piccolo particolare, dei contenuti veri della manovra concordata con l’Europa nessuno sa ancor niente. Forse li conosce il Professor Mario Monti quando definisce quelle scelte “impopolari ma necessarie”?
Un’ultima preoccupata osservazione – e credo sia quella “giusta”, parafrasando Krugman - : se queste sono le scelte, fatte di lacrime e sangue per un popolo ormai allo stremo, che un governo tecnico “deve” adottare, era forse questa la ragione per cui qualcuno voleva chiamare Mario Monti a presiederlo? E il suo articolo di fondo sul Corriere una risposta affermativa e di disponibilità?
Il primo articolo, a firma di Paul Krugman, sul New York Times del 5 agosto 2011, dal titolo “Le preoccupazioni sbagliate”, mette il dito nella piaga dell’economia americana: la recessione e la dilagante disoccupazione. Il suo “j’accuse” è chiarissimo: l’amministrazione Obama, succube del conservatorismo americano, ha continuato negli ultimi tempi a occuparsi e a preoccuparsi solo di inflazione e di stabilità fiananziaria - l’ “ossessione del deficit”, come la definisce in modo secco ma efficace Krugman –, mentre i cittadini americani erano sempre più in difficoltà: senza soldi e senza lavoro. Il giudizio di Krugman è lucido e diritto: senza crescita e senza occupazione nessuna stabilità finanziaria sarà tale.
Il secondo articolo, a firma di Mario Monti, sul Corriere della Sera del 7 agosto 2011, dal titolo “Il podestà forestiero”, ricorda subito, ai pochi distratti, la fede piena e incondizionata che nutre nei mercati l’autorevole economista nostrano. Una fede che lo porta a fare addirittura proprio il titolo di “mercatista”. Ma soprattutto ad accogliere con entusiasmo le “misure impopolari, ma in realtà positive per gli italiani che verranno” che giungono dai mercati e dall’Europa. Decisioni – sottolinea ancora Monti – prese da un “governo tecnico sopranazionale”. Misure figlie di un “imperativo della stabilità” sacrosanto e necessario. Ora, assunti con responsabilità questi “vincoli esterni”, spetterà – conclude Monti – alla politica italiana disegnare il proprio impegno per la crescita.
Perché così dissonanti questi articoli? Perché così lontani nell’analisi dei problemi e nel sentire i disagi sociali delle rispettive comunità americana e italiana? Perché così opposte le priorità da assegnare alle nostre economie?
Stiamo forse parlando di due mondi distinti o di un unico Mondo – ahimé - in crisi?
Perché oltre Atlantico la crescita è così chiaramente alternativa alle politiche di contenimento del bilancio e alla stabilità monetaria, mentre in Europa potremmo prima tagliare la spesa e poi tranquillamente crescere?
C’è qualcosa di marcio in Danimarca! Qualcosa naturalmente non va in almeno uno dei due ragionamenti.
Quel po’ di macroeconomia che ho imparato nelle aule universitarie mi dice che, a naso, ha ragione Krugman, almeno nel breve termine – e dato che tutta la partita purtroppo si gioca nel breve, nel brevissimo termine…
Queste sono le scelte: o si tutela in primis il lavoro, il potere di acquisto dei lavoratori e delle famiglie o la stabilità, che si raggiungerà forse domani, sarà tristemente inutile. Una soluzione che giungerà quando il paziente sarà ormai cadavere; anzi una soluzione che ne avrà provocato la morte.
E’ cosciente di questo Mario Monti? Si rendono conto i nostri “tecnici” nostrani dello stato in cui versa davvero l’Italia che lavora, o che vorrebbe lavorare e/o che vorrebbe consumare quanto serve per vivere dignitosamente?
Oppure quello che conta è “solo” tranquillizzare i mercati, e poi si vedrà?
“Gli italiani che verranno” non saranno, caro Professor Monti, tutti uguali, perché da questa crisi alcuni usciranno vivi ed altri no. E allora, mentre i “tecnici” preparano nuovi tagli alla spesa sociale, nuovi tagli ai servizi pubblici o ancora, come proposto da un suo esimio collega della Cattolica di Milano, Alberto Quadrio Curzio, un aumento dell’IVA che colpirà solo e unicamente la spesa quotidiana delle famiglie, è ben difficile intravedere o anche solo immaginare la crescita dell’economia italiana.
Ma, piccolo particolare, dei contenuti veri della manovra concordata con l’Europa nessuno sa ancor niente. Forse li conosce il Professor Mario Monti quando definisce quelle scelte “impopolari ma necessarie”?
Un’ultima preoccupata osservazione – e credo sia quella “giusta”, parafrasando Krugman - : se queste sono le scelte, fatte di lacrime e sangue per un popolo ormai allo stremo, che un governo tecnico “deve” adottare, era forse questa la ragione per cui qualcuno voleva chiamare Mario Monti a presiederlo? E il suo articolo di fondo sul Corriere una risposta affermativa e di disponibilità?
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mercoledì 27 luglio 2011
I miliardi che uccidono due volte
Oggi tutto il Parlamento, eccezion fatta per l'IDV e un piccolo gruppo di senatori del PD, ha votato il rifinanziamento delle missioni di guerra.
Un miliardo e mezzo di euro nell'ultimo anno è stato destinato alle spedizioni belliche, mentre si tagliano i servizi pubblici essenziali.
Poche settimane fa, negli stessi giorni in cui si approvava una manovra finanziaria di 47 miliardi di euro, fatta di tagli alla salute, all'istruzione e ai servizi pubblici, si destinavano 30 miliardi (cioè circa l'65% di quelle risorse) all'acquisto di nuovi aerei ed elicotteri militari.
"L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa" (art.11).
"La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti".
Ecco come la nostra carta costituzionale è gettata alle ortiche e calpestata impunemente tutti i giorni. Perché non interviene su questo, a difesa dei doveri e dei diritti costituzionali, il nostro Presidente della Repubblica? Perché il PD, che siede in Parlamento e che costituisce buona parte dell'opposizione parlamentare, non apre un dibattito pubblico e non ascolta i cittadini italiani? E' senso dello Stato questo? O non si fa altro che alimentare l'allontanamento di tutti noi dalle istituzioni e dalla politica? Mentre noi piangiamo - per i morti in Afghanistan e per i tagli allo stato sociale - Finmeccanica ringrazia. E il guerrafondaio Guarguaglini se la ride.
Un miliardo e mezzo di euro nell'ultimo anno è stato destinato alle spedizioni belliche, mentre si tagliano i servizi pubblici essenziali.
Poche settimane fa, negli stessi giorni in cui si approvava una manovra finanziaria di 47 miliardi di euro, fatta di tagli alla salute, all'istruzione e ai servizi pubblici, si destinavano 30 miliardi (cioè circa l'65% di quelle risorse) all'acquisto di nuovi aerei ed elicotteri militari.
"L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa" (art.11).
"La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti".
Ecco come la nostra carta costituzionale è gettata alle ortiche e calpestata impunemente tutti i giorni. Perché non interviene su questo, a difesa dei doveri e dei diritti costituzionali, il nostro Presidente della Repubblica? Perché il PD, che siede in Parlamento e che costituisce buona parte dell'opposizione parlamentare, non apre un dibattito pubblico e non ascolta i cittadini italiani? E' senso dello Stato questo? O non si fa altro che alimentare l'allontanamento di tutti noi dalle istituzioni e dalla politica? Mentre noi piangiamo - per i morti in Afghanistan e per i tagli allo stato sociale - Finmeccanica ringrazia. E il guerrafondaio Guarguaglini se la ride.
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mercoledì 15 giugno 2011
Per una nuova Politica: scegliamo noi
Dopo le due splendide vittorie delle amministrative e dei referendum, dopo che gli italiani hanno detto alto e forte che vogliono cambiare, è tempo che la Sinistra riprenda l'iniziativa. Può farlo in due modi: aprendo subito un cantiere politico nel quale possano confluire le idee e le passioni di tanti cittadini, associazioni e partiti; e lanciando senza esitazioni le primarie per scegliere direttamente le persone che saranno chiamate a rappresentarci nel futuro Parlamento nazionale. Primarie per il leader, ma non solo. C'è un modo di abrogare fattualmente il porcellum: far sì che nei territori i cittadini possano scegliere i loro candidati. E' molto semplice, basta volerlo. Per una nuova Politica: scegliamo noi.
Giampietro Pizzo
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lunedì 31 gennaio 2011
Il patrimonio e l’imposta.
Ovvero perché bisogna introdurre un’imposta patrimoniale ordinaria
Non era mia intenzione scomodare lo spirito liberista di Luigi Einaudi nel prendere a prestito, parafrasando, il titolo di una sua famosa opera – La terra e l’imposta –, ma quello cha va ormai affrontato è una questione di rilevanza storica nazionale, perché occorre ridisegnare, senza più indugi, un diverso rapporto tra lavoro, produzione e ricchezza. E se l’illustre economista e Presidente della Repubblica Italiana discorreva sul bisogno di difendere e premiare chi lavora e produce rispetto a chi vive di rendita, oggi si tratta, né più né meno, di tutelare la collettività nazionale rispondendo positivamente al disagio che questa esprime.
Il nostro Paese è il secondo in Europa quanto a dimensione del debito pubblico – 116% del PIL, ci dicono le statistiche – ma è, al contempo, il Paese europeo con il più alto livello di patrimonio privato: una ricchezza equivalente a quasi il doppio del nostro PIL annuo - un dato che ci colloca davanti a Regno Unito e Paesi Bassi.
E’ questa la ragione per cui l’Italia è stata in questi mesi al riparo degli attacchi speculativi che hanno investito prima la Grecia e l’Irlanda e poi, in misura minore, il Portogallo e la Spagna.
Fatta la somma algebrica del debito pubblico e della ricchezza privata, il nostro patrimonio netto è positivo: l’Italia rivela dunque una discreta solidità economica e finanziaria.
La spiegazione di questo fenomeno è, per certi versi, molto semplice: negli ultimi trent’anni di storia repubblicana, mentre i beni e i servizi pubblici venivano prodotti ed erogati in misura superiore a quanto consentissero le entrate fiscali, la ricchezza delle famiglie italiane è cresciuta a ritmi sostenuti.
La descrizione di questo processo economico deve essere però accompagnata da due considerazioni. La prima è che la crescita abnorme della spesa pubblica non è derivata unicamente dalla maggiore offerta di servizi e beni pubblici resi disponibili alla comunità nazionale ma anche, e in un determinato momento in modo prevalente, da uno spreco sconsiderato di risorse pubbliche derivante da fenomeni diffusi di corruzione, da comportamenti demagogici e illeciti. La seconda è che l’aumento della ricchezza privata ha interessato larghi strati della popolazione italiana; l’accresciuta disponibilità era sufficientemente diffusa da beneficiare non solo i ricchi ma anche il ceto medio e persino la popolazione italiana meno abbiente.
Questo stato delle cose potrebbe giustificare, almeno in parte, il prevalere di una certa repulsione per la cosa pubblica e l’affermarsi di una cultura del privato e della privatizzazione delle nostre esistenze vissuta come strategia utile e coerente con quanto stava accadendo nella società italiana. Affondano qui alcune delle radici del berlusconismo: fare da soli significava vivere meglio e con più risorse.
Questo modello è entrato negli ultimi dieci anni gradualmente ma inesorabilmente in crisi.
In particolare, per quanto riguarda la questione che qui ci interessa, è venuta meno la capacità propulsiva della ricchezza privata di crescere indipendentemente o a discapito della ricchezza pubblica. Anzi, per alcune categorie di persone fra le più povere del nostro Paese, quella tendenza si è invertita e anno dopo anno la loro ricchezza complessiva si è ridotta in modo rilevante. Disoccupazione, precarietà economica, riduzione del potere d’acquisto e di accesso ai servizi e beni essenziali, tutto questo si è tradotto direttamente o indirettamente in un crescente indebitamento privato e/o nella riduzione complessiva del patrimonio personale e famigliare.
L’insieme di queste difficoltà sociali ed economiche - le fragilità dei più deboli, i problemi del mercato del lavoro, i ritardi infrastrutturali di un’economia abituata a privatizzare i profitti e a socializzare le perdite - ha prodotto una domanda crescente e insoddisfatta di spesa pubblica. Una domanda non corrotta o demagogica ma reale: una domanda legittima e necessaria.
Le ipoteche storiche e i numeri dell’economia globale esigevano nello stesso momento una riduzione drastica della spesa pubblica anziché una crescita. A questa domanda - nei tempi ormai lontani di Maastricht – l’Italia tutta, e soprattutto l’Italia che lavora, rispose con sacrifici ingenti che consentirono di “rimettere i conti in ordine” - come dissero all’unisono in quegli anni Azeglio Ciampi e Romani Prodi.
Poi, mentre l’Italia arrancava nella competizione globale e nella definizione di un nuovo ordine economico internazionale a noi ostile, ecco abbattersi con tutta la violenza e drammaticità delle crisi capitalistiche ottocentesche, la doccia fredda del settembre 2008. Una crisi finanziaria, economica e sociale che ha bruciato, nel breve volgere di alcuni mesi, quote consistenti del benessere economico e sociale delle famiglie occidentali.
Di fronte alla dimensione della crisi, Stati Uniti, Francia e Germania non hanno esitato a intervenire con ingenti risorse pubbliche, per far fronte ai problemi e ai bisogni immediati dei loro cittadini e delle loro imprese. In Italia questo non è accaduto, e forse non era semplicemente possibile: il fardello del nostro debito pubblico storico ha impedito oggettivamente un intervento all’altezza della situazione.
Tempi migliori verranno – hanno recitato, anche negli ultimi mesi, il nostro ministro delle finanze e i guru dell’economia nazionale. Eppure – ahimé - è chiaro come il Sole che i limiti strutturali dell’economia italiana vanno al di là degli andamenti ciclici ordinari e straordinari. Peggio: il disagio sociale e la marginalità economica di intere fasce di popolazione rendono la loro e la nostra condizione di sofferenza una malattia cronica.
E’ dunque quanto mai urgente un intervento forte, energico, lungimirante di politica economica e di finanza pubblica. Ma con quali risorse, diranno subito i nostri lettori e gli accorti cittadini di questo nostro disgraziato Paese? Risorse non ve ne sono, è la risposta unanime. Anzi, per far fronte ai deficit di bilancio, nuovi tagli a trecento sessanta gradi si stanno già preparando: tagli alla scuola e alla sanità, tagli alla ricerca e al welfare, tagli alla cultura e ai servizi pubblici essenziali. Tagli e ancora tagli: sino a dissolvere non solo l’apparato statale e pubblico ma anche i meccanismi stessi della nostra convivenza civile.
E’ questo lo scenario nel quale vogliamo davvero incamminarci?
Occorre, ora e con molta determinazione, prendere atto che lo squilibrio prodottosi negli ultimi trent’anni deve essere interrotto e rovesciato. Il grande processo di redistribuzione delle risorse a beneficio dei privati e a danno del pubblico non può più continuare: perché è ormai in gioco la stessa sostenibilità sociale e civile del nostro Paese.
Si tratta non solo di proporre e applicare una misura di equità sociale e di perequazione nella copertura degli oneri collettivi, ma si tratta ancor prima di conservare e riprodurre le regole fondanti della nostro vivere comune.
La ricchezza pubblica è stata dilapidata in molti modi – corruzione, spreco, incapacità di una o più classi dirigenti; la ricchezza privata è stata accresciuta in molti modi – capacità di lavoro e imprenditoriale, posizioni di rendita e corruzione, spirito di innovazione e flessibilità, evasione fiscale e opportunismo. Ma questo squilibrio non può più continuare così. Altrimenti il nostro destino è segnato: una minoranza vivrà asserragliata in fortini urbani e in lussuosi quartieri residenziali, mentre la maggioranza si farà sempre più violenta, disperata, emarginata. E’ purtroppo uno scenario molto reale, che conoscono e sperimentano giorno dopo giorno intere società, dal Messico alla Nigeria.
Questo processo di redistribuzione del reddito in grado di “rimettere (socialmente) i conti in ordine” non può attendere e non può essere praticato solo attraverso gli strumenti esistenti.
Le imposte sul reddito intervengono regolando il flusso annuo della ricchezza. Anche questo è un obiettivo importante in un Paese nel quale l’evasione fiscale è stimata in 200 miliardi di euro; o quando assistiamo a forme più o meno occulte di elusione fiscale a beneficio dei profitti derivanti da speculazioni immobiliari e finanziarie. Ma non basta.
Gli stock accumulati – positivo quello privato e negativo quello pubblico - stanno condizionando le scelte politiche ed economiche di intere società.
E’ tempo che il loro contributo positivo sia rilevante. Per questo un’imposta patrimoniale ordinaria, capace di ridurre in pochi anni al 60% il nostro debito pubblico, è necessaria. Un’imposta ordinaria e non una misura pesante e una tantum, perché questo Paese ha bisogno di regole e di comportamenti virtuosi, senza giustizialismi di nessun tipo e tantomeno di un giustizialismo tributario. Ma occorre registrare che stiamo vivendo in una società in cui si può essere poveri lavorando e si può essere ricchi vivendo di rendita: e questo è sommamente ingiusto, diseducativo, incivile.
Una patrimoniale giusta nel metodo e ma soprattutto utile nel fine: perché abbiamo bisogno di più ricerca e istruzione, di più sanità e infrastrutture, di più servizi ai cittadini e di aiuti veri ai lavoratori in difficoltà.
Una società che vuole avere un futuro è una società nella quale la ricchezza o è comune oppure non è. Un Paese, invece, nel quale il 50% della ricchezza prodotta appartiene a meno di un decimo della popolazione, non è un Paese ricco; anzi è un Paese infelice, insicuro, in definitiva, un Paese povero.
Per questo è necessario ragionare di imposta patrimoniale.
Venezia, 31 gennaio 2011
Giampietro Pizzo
Non era mia intenzione scomodare lo spirito liberista di Luigi Einaudi nel prendere a prestito, parafrasando, il titolo di una sua famosa opera – La terra e l’imposta –, ma quello cha va ormai affrontato è una questione di rilevanza storica nazionale, perché occorre ridisegnare, senza più indugi, un diverso rapporto tra lavoro, produzione e ricchezza. E se l’illustre economista e Presidente della Repubblica Italiana discorreva sul bisogno di difendere e premiare chi lavora e produce rispetto a chi vive di rendita, oggi si tratta, né più né meno, di tutelare la collettività nazionale rispondendo positivamente al disagio che questa esprime.
Il nostro Paese è il secondo in Europa quanto a dimensione del debito pubblico – 116% del PIL, ci dicono le statistiche – ma è, al contempo, il Paese europeo con il più alto livello di patrimonio privato: una ricchezza equivalente a quasi il doppio del nostro PIL annuo - un dato che ci colloca davanti a Regno Unito e Paesi Bassi.
E’ questa la ragione per cui l’Italia è stata in questi mesi al riparo degli attacchi speculativi che hanno investito prima la Grecia e l’Irlanda e poi, in misura minore, il Portogallo e la Spagna.
Fatta la somma algebrica del debito pubblico e della ricchezza privata, il nostro patrimonio netto è positivo: l’Italia rivela dunque una discreta solidità economica e finanziaria.
La spiegazione di questo fenomeno è, per certi versi, molto semplice: negli ultimi trent’anni di storia repubblicana, mentre i beni e i servizi pubblici venivano prodotti ed erogati in misura superiore a quanto consentissero le entrate fiscali, la ricchezza delle famiglie italiane è cresciuta a ritmi sostenuti.
La descrizione di questo processo economico deve essere però accompagnata da due considerazioni. La prima è che la crescita abnorme della spesa pubblica non è derivata unicamente dalla maggiore offerta di servizi e beni pubblici resi disponibili alla comunità nazionale ma anche, e in un determinato momento in modo prevalente, da uno spreco sconsiderato di risorse pubbliche derivante da fenomeni diffusi di corruzione, da comportamenti demagogici e illeciti. La seconda è che l’aumento della ricchezza privata ha interessato larghi strati della popolazione italiana; l’accresciuta disponibilità era sufficientemente diffusa da beneficiare non solo i ricchi ma anche il ceto medio e persino la popolazione italiana meno abbiente.
Questo stato delle cose potrebbe giustificare, almeno in parte, il prevalere di una certa repulsione per la cosa pubblica e l’affermarsi di una cultura del privato e della privatizzazione delle nostre esistenze vissuta come strategia utile e coerente con quanto stava accadendo nella società italiana. Affondano qui alcune delle radici del berlusconismo: fare da soli significava vivere meglio e con più risorse.
Questo modello è entrato negli ultimi dieci anni gradualmente ma inesorabilmente in crisi.
In particolare, per quanto riguarda la questione che qui ci interessa, è venuta meno la capacità propulsiva della ricchezza privata di crescere indipendentemente o a discapito della ricchezza pubblica. Anzi, per alcune categorie di persone fra le più povere del nostro Paese, quella tendenza si è invertita e anno dopo anno la loro ricchezza complessiva si è ridotta in modo rilevante. Disoccupazione, precarietà economica, riduzione del potere d’acquisto e di accesso ai servizi e beni essenziali, tutto questo si è tradotto direttamente o indirettamente in un crescente indebitamento privato e/o nella riduzione complessiva del patrimonio personale e famigliare.
L’insieme di queste difficoltà sociali ed economiche - le fragilità dei più deboli, i problemi del mercato del lavoro, i ritardi infrastrutturali di un’economia abituata a privatizzare i profitti e a socializzare le perdite - ha prodotto una domanda crescente e insoddisfatta di spesa pubblica. Una domanda non corrotta o demagogica ma reale: una domanda legittima e necessaria.
Le ipoteche storiche e i numeri dell’economia globale esigevano nello stesso momento una riduzione drastica della spesa pubblica anziché una crescita. A questa domanda - nei tempi ormai lontani di Maastricht – l’Italia tutta, e soprattutto l’Italia che lavora, rispose con sacrifici ingenti che consentirono di “rimettere i conti in ordine” - come dissero all’unisono in quegli anni Azeglio Ciampi e Romani Prodi.
Poi, mentre l’Italia arrancava nella competizione globale e nella definizione di un nuovo ordine economico internazionale a noi ostile, ecco abbattersi con tutta la violenza e drammaticità delle crisi capitalistiche ottocentesche, la doccia fredda del settembre 2008. Una crisi finanziaria, economica e sociale che ha bruciato, nel breve volgere di alcuni mesi, quote consistenti del benessere economico e sociale delle famiglie occidentali.
Di fronte alla dimensione della crisi, Stati Uniti, Francia e Germania non hanno esitato a intervenire con ingenti risorse pubbliche, per far fronte ai problemi e ai bisogni immediati dei loro cittadini e delle loro imprese. In Italia questo non è accaduto, e forse non era semplicemente possibile: il fardello del nostro debito pubblico storico ha impedito oggettivamente un intervento all’altezza della situazione.
Tempi migliori verranno – hanno recitato, anche negli ultimi mesi, il nostro ministro delle finanze e i guru dell’economia nazionale. Eppure – ahimé - è chiaro come il Sole che i limiti strutturali dell’economia italiana vanno al di là degli andamenti ciclici ordinari e straordinari. Peggio: il disagio sociale e la marginalità economica di intere fasce di popolazione rendono la loro e la nostra condizione di sofferenza una malattia cronica.
E’ dunque quanto mai urgente un intervento forte, energico, lungimirante di politica economica e di finanza pubblica. Ma con quali risorse, diranno subito i nostri lettori e gli accorti cittadini di questo nostro disgraziato Paese? Risorse non ve ne sono, è la risposta unanime. Anzi, per far fronte ai deficit di bilancio, nuovi tagli a trecento sessanta gradi si stanno già preparando: tagli alla scuola e alla sanità, tagli alla ricerca e al welfare, tagli alla cultura e ai servizi pubblici essenziali. Tagli e ancora tagli: sino a dissolvere non solo l’apparato statale e pubblico ma anche i meccanismi stessi della nostra convivenza civile.
E’ questo lo scenario nel quale vogliamo davvero incamminarci?
Occorre, ora e con molta determinazione, prendere atto che lo squilibrio prodottosi negli ultimi trent’anni deve essere interrotto e rovesciato. Il grande processo di redistribuzione delle risorse a beneficio dei privati e a danno del pubblico non può più continuare: perché è ormai in gioco la stessa sostenibilità sociale e civile del nostro Paese.
Si tratta non solo di proporre e applicare una misura di equità sociale e di perequazione nella copertura degli oneri collettivi, ma si tratta ancor prima di conservare e riprodurre le regole fondanti della nostro vivere comune.
La ricchezza pubblica è stata dilapidata in molti modi – corruzione, spreco, incapacità di una o più classi dirigenti; la ricchezza privata è stata accresciuta in molti modi – capacità di lavoro e imprenditoriale, posizioni di rendita e corruzione, spirito di innovazione e flessibilità, evasione fiscale e opportunismo. Ma questo squilibrio non può più continuare così. Altrimenti il nostro destino è segnato: una minoranza vivrà asserragliata in fortini urbani e in lussuosi quartieri residenziali, mentre la maggioranza si farà sempre più violenta, disperata, emarginata. E’ purtroppo uno scenario molto reale, che conoscono e sperimentano giorno dopo giorno intere società, dal Messico alla Nigeria.
Questo processo di redistribuzione del reddito in grado di “rimettere (socialmente) i conti in ordine” non può attendere e non può essere praticato solo attraverso gli strumenti esistenti.
Le imposte sul reddito intervengono regolando il flusso annuo della ricchezza. Anche questo è un obiettivo importante in un Paese nel quale l’evasione fiscale è stimata in 200 miliardi di euro; o quando assistiamo a forme più o meno occulte di elusione fiscale a beneficio dei profitti derivanti da speculazioni immobiliari e finanziarie. Ma non basta.
Gli stock accumulati – positivo quello privato e negativo quello pubblico - stanno condizionando le scelte politiche ed economiche di intere società.
E’ tempo che il loro contributo positivo sia rilevante. Per questo un’imposta patrimoniale ordinaria, capace di ridurre in pochi anni al 60% il nostro debito pubblico, è necessaria. Un’imposta ordinaria e non una misura pesante e una tantum, perché questo Paese ha bisogno di regole e di comportamenti virtuosi, senza giustizialismi di nessun tipo e tantomeno di un giustizialismo tributario. Ma occorre registrare che stiamo vivendo in una società in cui si può essere poveri lavorando e si può essere ricchi vivendo di rendita: e questo è sommamente ingiusto, diseducativo, incivile.
Una patrimoniale giusta nel metodo e ma soprattutto utile nel fine: perché abbiamo bisogno di più ricerca e istruzione, di più sanità e infrastrutture, di più servizi ai cittadini e di aiuti veri ai lavoratori in difficoltà.
Una società che vuole avere un futuro è una società nella quale la ricchezza o è comune oppure non è. Un Paese, invece, nel quale il 50% della ricchezza prodotta appartiene a meno di un decimo della popolazione, non è un Paese ricco; anzi è un Paese infelice, insicuro, in definitiva, un Paese povero.
Per questo è necessario ragionare di imposta patrimoniale.
Venezia, 31 gennaio 2011
Giampietro Pizzo
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