I provvedimenti contenuti nella manovra finanziaria costituiscono il punto di non ritorno della separazione tra il Paese reale e le istituzioni pubbliche.
Il Governo, con le sue scelte scellerate, con il coacervo di interessi, di pressioni e di condizionamenti torbidi e immorali che lo contraddistinguono, non rappresenta più la volontà della maggioranza degli italiani ma solo l’arrogante disperazione di un blocco politico in disfacimento, vuoto ormai di ogni legittimità costituzionale e sociale.
Sono parole pesanti queste, ma pesantissima e straordinaria è la situazione politica e sociale in cui il Paese si trova.
Lo sciopero del 6 settembre ha mobilitato ancora una volta le forze vive dell’Italia: i lavoratori e i giovani che non si arrendono allo sfascio e al collasso sociale. Ora a quella domanda di cambiamento, a quella voce di popolo, occorre rispondere, con determinazione e con chiarezza, subito. Non è più tempo per mediazioni, esitazioni o equilibrismi.
Occorre che un ritrovato soggetto politico – dentro e fuori dai partiti politici della sinistra – si alzi e dica con fermezza che cosa fare. Dica che cosa bisogna fare per salvare le istituzioni; che cosa si può fare per rimettere i conti pubblici in ordine; che cosa è possibile fare per proteggere il lavoro dalla precarietà e la vita delle persone dagli sciacalli della speculazione e della finanza assassina.
Abbiamo bisogno di un soggetto politico con la forza e l’autorevolezza per dire:
“ Caro Presidente Napolitano, difendere la Costituzione della Repubblica significa ridare subito la parola agli italiani, perché è nel Paese che la maggioranza parlamentare non esiste più.
Caro Governatore Draghi, rispondere davvero ai mercati significa fermare subito le speculazioni finanziarie e non affondare il Paese nella recessione e nella disperazione.”
Su poche scelte, dirette e chiare, si può costruire – ma bisogna fare presto! - un progetto di Governo credibile e rinnovato; su pochi punti fermi è necessario fare esprimere la volontà popolare.
O i partiti di opposizione colgono davvero la portata del cataclisma in atto, oppure non ci sarà speranza per nessuno e le fruste logiche della bieca conservazione e dell’auto-riproduzione dell’attuale ceto politico suoneranno il de profundis di ogni possibilità di cambiamento.
Nei mesi scorsi, con le elezioni amministrative e con i referendum sull’acqua e sul nucleare, i cittadini italiani hanno detto con chiarezza qual è il cambiamento che attendono.
Sembrano passati decenni da allora, da quella rinnovata e vitale passione civile: il dibattito politico è ripiombato nel grigiore, nell’idiotismo, nella vacuità a cui ci ha abituato il berlusconismo. Ma la responsabilità più grossa – perché è in quella direzione che guardano le passioni civili e le domande di cambiamento – è quella dei partiti di opposizione.
Costruire un programma di governo e un progetto di società significa rispondere ad alcune fondamentali domande su quale architettura debba avere la società italiana degli anni a venire.
Proviamo a formulare alcuni di questi quesiti:
L’Italia di domani sarà fondata sul lavoro o sulla rendita?
Si valorizzeranno i beni comuni o si privatizzerà in modo irreversibile ogni sfera della vita umana – dalla salute alla conoscenza, dalla mobilità all’abitare, dalla cultura all’ambiente?
L’Italia di domani sarà un Paese povero con una élite straricca, rinchiusa nei propri fortini dorati, oppure costruiremo un’Italia delle opportunità per tutti, un’Italia libera, aperta e giusta?
Il Paese che verrà sarà fondato sui diritti oppure sui privilegi, sulle regole non scritte, sullo scambio politico?
Un Paese che investe nella cultura, nella scuola, che costruisce la Pace oppure che continua a destinare ingentissime risorse pubbliche all’economia di guerra?
L’Italia di domani sarà un Paese devastato, dipendente e brutto o un Paese bello, sostenibile e umano?
Non sono, cari Bersani, Di Pietro, Vendola, domande retoriche queste ma domande pressanti, assillanti, drammatiche, perché ne va della vita nuda di ognuno di noi.
E allora occorrono risposte chiare, immediate, portatrici di un fare scevro di ambiguità, risposte attorno alle quali misurare il consenso e costruire un’unità di intenti.
Certo, il mondo è complesso, contraddittorio, liquido, ma in tempi straordinari, chi fa Politica deve segnare una direzione, dare valore e senso all’agire collettivo, riaprire lo spazio della volontà e del futuro. Altrimenti, davvero la Politica muore. Altrimenti, davanti avremo le macerie della frustrazione, degli interessi immediati, crudi e violenti, dove ognuno di noi cercherà una propria personale e disperata salvezza, per essere infine sommersi dalla tragedia di un Paese perduto.
Possiamo ancora evitare questa catastrofe.
Ma dipende da tutti noi. Perché il tempo è adesso. Perché il Paese non può aspettare.
SEL Venezia
lunedì 19 settembre 2011
Il Paese non può aspettare
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