lunedì 26 settembre 2011

Crisi e paradossi finanziari. Ovvero come uscire dal pantano?

Dopo il tracollo del settembre 2008, la finanza pubblica dell’Occidente ha iniettato nel sistema bancario enormi quantità di denaro per far fronte alla crisi di liquidità che l’esplodere della bolla speculativa aveva generato. Mai nel dopoguerra si era assistito a un piano di salvataggio di così ampie e sistemiche proporzioni realizzato a suon di miliardi di euro/dollari per ricapitalizzare il sistema bancario americano ed europeo. Con quella manovra si voleva evitare che il collasso del sistema finanziario trascinasse con sé l’intera economia mondiale dando il via a una recessione analoga a quella degli anni ’30.
Nel 2010, nel giro di pochi mesi, i principali istituti finanziari e bancari sono tornati a macinare profitti, grazie agli impieghi realizzati proprio con la liquidità addizionale messa a disposizione dagli Stati. Impieghi finanziari che solo in minima parte hanno favorito progetti imprenditoriali e industriali diretti. La stragrande maggioranza di quelle risorse sono invece tornate – come se nulla fosse successo pochi mesi prima – a puntare sui prodotti offerti dalla finanza speculativa e d’azzardo.
Insomma, mentre gli Stati s’indebitavano, buttando nel cestino, nel volgere di pochi giorni, decenni di dichiarazioni solenni sull’inderogabilità dei patti di stabilità, stracciando impegni sovranazionali basati sul rigido rispetto di politiche monetarie restrittive quale unico baluardo contro l’instabilità (chi si ricorda più dei vincoli di Maastricht oggi?), ebbene di fronte a questa svolta epocale, le Banche con totale non chalance confermavano quelle stesse regole di gestione e di massimizzazione dei profitti che le avevano condotte tra il 2007 e il 2009 sull’orlo della bancarotta.
Per usare un’immagine speriamo efficace, la storia a cui abbiamo assistito nell’ultimo biennio è quella di un naufrago che, salvato dai flutti nei quali, a scienza certa, stava affogando, appena riprende fiato, non trova nulla di meglio che correre a comprare una pistola con la quale uccidere il proprio salvatore. Basta guardare ai crudi fatti perché ne risulti confermata questa paradossale ma purtroppo autentica storia.
Le decisioni di investimento, di impiego e di smobilizzo messi in atto dagli operatori finanziari, direttamente o indirettamente, corrispondono a questa immagine: infatti un buon numero di queste istituzioni hanno puntato sul fallimento di alcuni Stati dell’Unione europea, gli stessi che pochi mesi prima avevano anch’essi deciso il loro salvataggio.

E’ un dato di fatto che dagli attacchi speculativi a Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia – i cosiddetti PIGS - alcuni investitori ribassisti hanno ricavato ingenti margini. Dove sono ora finite quelle prese di profitto? Certamente al sicuro, in qualche banca svizzera o in qualche fondo off-shore, o semplicemente su altre piazze finanziarie mondiali considerate più sicure. L’effetto cumulativo delle ondate speculative torna ora come un boomerang e sembra non voler risparmiare nessuno.
Così, a piangere e a lamentarsi, oltre ai piccoli risparmiatori, ai dipendenti pubblici e privati, ai precari, ai disoccupati, ai giovani e ai pensionati, ecco aggiungersi, ancora una volta, le banche, europee e americane senza distinzione. Alcune piangono di più, ad esempio le francesi e le tedesche, e altre di meno.
Di che si lamentano? Le banche si lamentano della qualità dei loro portafogli, pieni zeppi di titoli di stato dei PIGS, comprati non secoli fa ma pochi mesi fa o anche solo l’altro ieri, allettate dai considerevoli rendimenti che la speculazione ha originato. Ma se domani la Grecia prima e dopodomani l’Italia dichiarassero lo stato di default, quegli attivi diventerebbero automaticamente carta straccia.
Qual è allora l’ultima trovata del G20 e del Fondo Monetario Internazionale? Creare un Fondo salva-Stati che entrando nel capitale delle Banche permetta loro di assorbire le perdite che si creeranno quando quei titoli del debito pubblico non varranno più nulla.
Sorge subito un dubbio: ma perché se si devono salvare gli Stati, si salvano innanzitutto le banche? Non sarebbe più semplice con l’emissione di eurobond sostituire in parte i titoli nazionali rendendo quel debito sovrano meno rischioso?
E a proposito di banche, non è proprio per il fatto che i titoli dei PIGS sono così rischiosi che esse, in quanto principali investitori istituzionali, ricevono per la loro sottoscrizione tassi di interesse stratosferici, del 4, 10 e sino al 20% in più degli interessi pagati sui titoli tedeschi?
Del resto, se si trattasse di debito privato saremmo già oltre il tasso di usura!
Certo, con l’intervento europeo, scomparirebbe il rischio (perché pagato dal pubblico) e quei tassi dovrebbero ritornare su livelli normali – salvo che continueremmo a non sapere che fine hanno fatto le prese di profitto.
E sia, diciamo che questo ennesimo sacrificio pubblico mira a rimettere in ordine le cose, a evitare il peggio. Ma allora, ci chiediamo: chi ci garantisce che la storia non si ripeterà?
Perché non si ripeta la beffa della capitalizzazione del 2009, quali condizionalità saranno imposte alle banche, quale sarà il potere di veto dell’azionista pubblico sulle scelte di investimento e di gestione dei banchieri? Oppure, ancora una volta, in nome della “sacralità del mercato” le nuove risorse bancarie torneranno ad abbattersi, come letali armi di distruzione di massa, sulla vita dei cittadini che gli stessi Governi dovrebbero tutelare?
Questa nuova fase sarebbe doppiamente fatale – e così per certi versi è già negli annunci: da un lato, si scatenerebbe un’ondata supplementare di privatizzazioni per saldare i nuovi debiti originati dal Fondo salva-banche e, dall’altro, quelle risorse sarebbero impiegate proprio per comprare a prezzi stracciati interi comparti del patrimonio pubblico.
L’inevitabile risultato sarebbe il secco impoverimento della popolazione e il corrispettivo aumento del tasso di finanza cattiva nei gangli dell’economia mondiale.
Il paradosso è dunque quello di un mondo alla rovescia in cui più ti comporti male e più vieni premiato? Purtroppo, la beffa è che in nome dell’infallibilità dei mercati, le sanzioni applicate appaiono totalmente asimmetriche: se il debito pubblico non è credibile, bisogna licenziare, tagliare, vendere; se invece la finanza privata non sta in piedi, allora va salvata, perché altrimenti il panico dei mercati si potrebbe estendere a macchia d’olio, eccetera, eccetera.

Morale lapalissiana: se il mondo è storto, vuol dire che non è dritto. Occorre dunque ricostruire un mondo equilibrato e portatore di un’etica degna di questo nome.
Le banche debbono semplicemente tornare a fare il loro mestiere: cioè utilizzare i risparmi delle persone per concedere crediti a chi ha progetti validi ed è capace di produrre lavoro e ricchezza. Né più né meno che questo.
I Governi, d’altro canto, hanno il sacrosanto dovere di consolidare il debito storico ormai ingestibile, un fardello che non può pesare ad infinitum sul futuro nostro e dei nostri figli.

In un mondo così complesso, le cose a volte possono essere a tratti meravigliosamente lineari e comprensibili. Renderle tali è compito della Politica, ottemperando ai propri fini che sono quelli dell’interesse pubblico e non quello di pochi, voraci e autodistruttivi pescecani.


Giampietro Pizzo

3 commenti:

thor ha detto...

Più leggo su e più penso a questa crisi economica, più mi convinco che la sua origine sia nella iniqua distribuzione del reddito che causa sottoconsumo. Le imprese sono quindi in sofferenza e le banche, a loro volta, esposte con crediti rivelatisi azzardati, faticano a compensare le insolvenze. Gli Stati peggio amministrati, come Italia e Grecia, con livelli di evasione fiscale ai limiti della tollerabilità e di corruzione al di là di ogni decenza, sono impotenti a intervenire secondo i dettami del keynesismo. Le borse impazziscono, i capitali cercano improbabili beni rifugio, non disdegnando le commodity (derrate alimentari), facendone aumentare il prezzo il che affama ulteriormente milioni di esseri umani. Dopo decenni di liberismo, condito in varie salse, siamo alle soglie di una crisi epocale ma per riconoscerlo ci vogliono i super ricchi alla Buffett. Da noi si cincischia ancora sulla patrimoniale e sui salvacondotti per la banda che ci governa. Temo abbia ragione chi ritiene che il peggio non è mai arrivato. Certo, stupisce l'acquiescenza della servile italica plebe, incapace di reagire dopo la sbornia puramente ideologica degli ultimi decenni: eppure abbiamo i salari più bassi di Europa, livelli di welfare ridicoli e in via di erosione, servizi pubblici e infrastrutture sempre più povere e disarticolate … C'è di che essere disorientati a osservare lo stato del Paese, che vantava il più forte partito comunista occidentale e il movimento sindacale europeo più attivo e propositivo.

Sergio Torcinovich

Giampietro ha detto...

Caro Sergio, condivido il punto: l'iniqua distribuzione del reddito. Ma la causa sta nel fatto che grazie alla finanza la rendita è tornata ad essere lo strumento privilegiato di concentrazione di ricchezza. Il rentier - dopo essere apparentemente morto durante i 30 gloriosi - è resuscitato. La sua ricerca di forme efficaci di accumulazione ha trovato nella finanza lo strumento più potente e devastante. Ecco perché bisogna disinnescare le armi della finanza speculativa per poter riprendere il tema del conflitto distributivo reale. Altrimenti è una fatica di Sisifo: quello che ottieni la mattina è annullato in pochi secondi sulle piazze finanziarie mondiali. Grazie. Giampietro

thor ha detto...

Ok, siamo d'accordo allora. Bisogna sempre considerare le origini nell'economia reale (una volta, si diceva nelle sue contraddizioni) delle varie crisi. Soprattutto oggi (29 settembre 2011) che si viene a "scoprire" che i probi "tecnici" delle banche centrali auspicano / ordinano tagli salariali (per i dipendenti pubblici, of course ...) che porteranno a deprimere ulteriormente la domanda e quindi il reddito, con effetti devastanti per il debito pubblico ecc. ecc. Non fa certo piacere essere finiti nelle mani di distinti e paludati cravattari, ma che dire della nostrana Confindustria che scopre oggi la comunanza di interessi con i salariati contro la rendita parassitaria, cavallo di battaglia del PCI dei primi anni Settanta? Anche i profitti hanno goduto dell'immane trasferimento di reddito avvenuto negli ultimi decenni di liberismo a danno dei salari (dal 15 al 20% del PIL!), fatto che ha consentito a valorosi capitani d'industria di trasformarsi in speculatori visto che era più semplice operare in borsa piuttosto che pianificare investimenti dagli esiti incerti. Adesso è tutto più incerto e pericoloso e nessuno ha idea di come uscirne, se non predicando nuove liberazzazioni e privatizzazionini. Come negli anni Trenta, senza che vi sia un Keynes o un Roosevelt all'orizzonte.
Sergio Torcinovich