venerdì 12 dicembre 2008
sabato 6 dicembre 2008
Tasse di scopo e scopo delle tasse
Parlare di economia in un periodo di crisi significa parlare di risorse pubbliche. Sono quelle - non le risorse private - che consentono di avere “vista lunga” su quello che va fatto e su quello che non va fatto.
Risorse pubbliche da allocare e risorse pubbliche da trovare. E’ un tema caldo sia per le scelte nazionali e internazionali che per le politiche locali.
Vorremmo in questo caso dire poche cose sugli strumenti di politica locale. E sul tanto rinomato federalismo fiscale.
Il federalismo fiscale nasce da un assunto: per rendere accettabile l’imposizione fiscale bisogna avvicinare il bastone alla carota, ovvero rendere evidente il nesso tra il tributo imposto al cittadino e l’utilità che ne deriva una volta che queste risorse sono impiegate dal soggetto pubblico.
Questo è l’argomento principe del federalismo fiscale. Una applicazione ancora più forte e stringente di questo teorema si ritrova nelle cosiddette tasse (imposte) di scopo.
L’effetto “annuncio” della Lega - e di Calderoli, in particolare - ha prodotto in questi mesi molte aspettative. Aspettative di alleggerimento fiscale o aspettative di migliore qualità della spesa?
Difficile rispondere, ma le condizioni affinché questa operazione si traduca in un sonoro flop ci sono purtroppo tutte. I segnali sono di tutt’altro segno: più si rende vicino il tributo, più c’è chi si lamenta contro e nessuno che si dichiara per.
Ne nasce, paradossalmente, un teorema rovesciato del federalismofiscale: più si è prossimi, più si è litigiosi. E tra i due litiganti – come si sa - il terzo gode – con inevitabile tripudio delle innumerevoli legioni di evasori, elusori e birbanti di sempre.
Un’applicazione di questo teorema rovesciato ci viene da Venezia (in buona compagnia, sembra, con altre città d’arte: Roma, Firenze, etc...).
Parliamo della tassa (imposta) di scopo sul turismo. Al solo paventare l’idea di introdurre un tributo legato al comparto turistico (tassa di soggiorno o altro), apriti cielo! Alte si sono levate le urla di protesta degli operatori e le reazioni ostili delle forze politiche che intendono rappresentarle non si sono fatte attendere.
A poco è valso ricordare che il patrimonio urbano, culturale e artistico costituisce l’asset principale dell’economia turistica: e come in ogni impresa, il capitale va mantenuto, riprodotto, eccetera, eccetera.
Sappiamo bene che quasi nessun privato se ne occupa, perché quel patrimonio è pubblico – dunque, secondo il mercato, di nessuno. Logica vorrebbe invece che, trattandosi di bene pubblico - dunque di tutti -, ad esso vadano destinate risorse pubbliche per la sua conservazione.
In un mondo ideale, sarebbe di per sé evidente la necessità che gli imprenditori turistici contribuissero, attraverso il prelievo fiscale, alla conservazione di questo bene pubblico che “sostiene” la loro attività privata.
Nel nostro prosaico mondo, gli albergatori, i ristoratori, gli esercenti e i commercianti veneziani continuano a comportarsi come dei “rentiers imprevidenti”. “Rentiers” perché vivono di una rendita di posizione, prodotta non dalle loro fatiche ma dalla storia e dalle società che ci hanno preceduto; "imprevidenti" perché costoro non si preoccupano affatto di conservarne la riproduzione.
D’altro canto, non è alla buona coscienza degli operatori turistici di oggi o di domani che dobbiamo fare appello: si sa che quando ci sono interessi in gioco, il mercante è sordo, anzi sordissimo.
Il problema è che quel patrimonio pubblico non ha “voce”, perché, in questi decenni, si è distrutto anche quel minimo senso di appartenenza alla comunità e di rispetto della cosa pubblica che la nostra società aveva saputo esprimere. Perché - ci si potrebbe senza retorica chiedere - lottare per una città pulita; perché mobilitarsi per riaprire uno spazio pubblico o per preservare edifici scolastici, parchi, luoghi fruibili da tutti i cittadini?
Queste domande, purtroppo, non hanno oggi “voce”, né voci sufficienti che ne sostengano la necessità; nella migliore delle ipotesi, la loro voce è flebile e stentata. Da una parte, alte si levano le urla delle corporazioni organizzate; dall’altra, flebili e timide rimangono le voci dei cittadini che vivono la città come spazio pubblico non mercantile.
Questo è il triste stato delle nostre cose italiche – a Venezia, come a Roma o a Firenze.
Che fare, allora?
Se la logica degli interessi non conosce persuasione, e a poco valgono gli appelli alla mancanza di risorse pubbliche per il mantenimento del capitale immobiliare e infrastrutturale da cui derivano i loro proventi gli operatori turistici, bisogna per forza trovare altre strade.
Sappiamo ormai che il principale effetto dell’economia turistica nelle città d’arte è quello di un vero e proprio “spiazzamento” che l’economia turistica produce rispetto alle economie concorrenti - in primis, rispetto alla dimensione residenziale e ai servizi a questa legata.
Bene, la ricetta non è facile ma è semplice: vogliamo una tassa di scopo sul turismo i cui proventi siano destinati integralmente alla Casa. Vogliamo politiche di housing sociale di dimensioni macroeconomiche rilevanti (non le poche decine di unità immobiliari che ogni Comune si impegna a realizzare per tenere alta la bandiera della filantropia sociale).
Queste sono le voci che occorrono - quelle dei residenti cacciati dai centri storici, quelle degli studenti e dei ricercatori che non trovano nulla di decente a prezzi congrui rispetto ai loro redditi, quelle dei giovani che vogliono vivere per conto proprio, quelle delle famiglie e dei bimbi che vogliono vivere in spazi densi e vivi e non in deserti urbani – per opporsi efficacemente alle urla dei bottegai di maschere e paccottiglia, dei gondolieri e degli “intromettitori” di ogni specie. Per contrapporre davvero un’idea alta di città.
C’è un più – più risorse pubbliche per la città – e c’è un meno – meno profitti in tasca a chi guadagna e non contribuisce. Chi avrà più voce vincerà questa battaglia politica.
Chiediamo almeno di avere un’opportunità per misurarci. Per questo che i politici veri si mettano da un lato e i demagoghi e i politicanti si mettano dall’altra parte.
Giampietro Pizzo
PS: Per contribuire, sia pure in piccola parte, a contenere la grande confusione che regna nel nostro Paese, male non farebbe ricordare a tutti la differenza che passa tra tasse e imposte. Le prime sono il prezzo per un servizio pubblico; le seconde sono un contributo economico alla società in cui viviamo. Come recita la nostra Costituzione, le imposte servono a ridistribuire risorse fra chi ha molto e chi non ha abbastanza. In un’epoca di crisi, tornare all’idea delle imposte come forma di solidarietà non guasterebbe davvero!
Risorse pubbliche da allocare e risorse pubbliche da trovare. E’ un tema caldo sia per le scelte nazionali e internazionali che per le politiche locali.
Vorremmo in questo caso dire poche cose sugli strumenti di politica locale. E sul tanto rinomato federalismo fiscale.
Il federalismo fiscale nasce da un assunto: per rendere accettabile l’imposizione fiscale bisogna avvicinare il bastone alla carota, ovvero rendere evidente il nesso tra il tributo imposto al cittadino e l’utilità che ne deriva una volta che queste risorse sono impiegate dal soggetto pubblico.
Questo è l’argomento principe del federalismo fiscale. Una applicazione ancora più forte e stringente di questo teorema si ritrova nelle cosiddette tasse (imposte) di scopo.
L’effetto “annuncio” della Lega - e di Calderoli, in particolare - ha prodotto in questi mesi molte aspettative. Aspettative di alleggerimento fiscale o aspettative di migliore qualità della spesa?
Difficile rispondere, ma le condizioni affinché questa operazione si traduca in un sonoro flop ci sono purtroppo tutte. I segnali sono di tutt’altro segno: più si rende vicino il tributo, più c’è chi si lamenta contro e nessuno che si dichiara per.
Ne nasce, paradossalmente, un teorema rovesciato del federalismofiscale: più si è prossimi, più si è litigiosi. E tra i due litiganti – come si sa - il terzo gode – con inevitabile tripudio delle innumerevoli legioni di evasori, elusori e birbanti di sempre.
Un’applicazione di questo teorema rovesciato ci viene da Venezia (in buona compagnia, sembra, con altre città d’arte: Roma, Firenze, etc...).
Parliamo della tassa (imposta) di scopo sul turismo. Al solo paventare l’idea di introdurre un tributo legato al comparto turistico (tassa di soggiorno o altro), apriti cielo! Alte si sono levate le urla di protesta degli operatori e le reazioni ostili delle forze politiche che intendono rappresentarle non si sono fatte attendere.
A poco è valso ricordare che il patrimonio urbano, culturale e artistico costituisce l’asset principale dell’economia turistica: e come in ogni impresa, il capitale va mantenuto, riprodotto, eccetera, eccetera.
Sappiamo bene che quasi nessun privato se ne occupa, perché quel patrimonio è pubblico – dunque, secondo il mercato, di nessuno. Logica vorrebbe invece che, trattandosi di bene pubblico - dunque di tutti -, ad esso vadano destinate risorse pubbliche per la sua conservazione.
In un mondo ideale, sarebbe di per sé evidente la necessità che gli imprenditori turistici contribuissero, attraverso il prelievo fiscale, alla conservazione di questo bene pubblico che “sostiene” la loro attività privata.
Nel nostro prosaico mondo, gli albergatori, i ristoratori, gli esercenti e i commercianti veneziani continuano a comportarsi come dei “rentiers imprevidenti”. “Rentiers” perché vivono di una rendita di posizione, prodotta non dalle loro fatiche ma dalla storia e dalle società che ci hanno preceduto; "imprevidenti" perché costoro non si preoccupano affatto di conservarne la riproduzione.
D’altro canto, non è alla buona coscienza degli operatori turistici di oggi o di domani che dobbiamo fare appello: si sa che quando ci sono interessi in gioco, il mercante è sordo, anzi sordissimo.
Il problema è che quel patrimonio pubblico non ha “voce”, perché, in questi decenni, si è distrutto anche quel minimo senso di appartenenza alla comunità e di rispetto della cosa pubblica che la nostra società aveva saputo esprimere. Perché - ci si potrebbe senza retorica chiedere - lottare per una città pulita; perché mobilitarsi per riaprire uno spazio pubblico o per preservare edifici scolastici, parchi, luoghi fruibili da tutti i cittadini?
Queste domande, purtroppo, non hanno oggi “voce”, né voci sufficienti che ne sostengano la necessità; nella migliore delle ipotesi, la loro voce è flebile e stentata. Da una parte, alte si levano le urla delle corporazioni organizzate; dall’altra, flebili e timide rimangono le voci dei cittadini che vivono la città come spazio pubblico non mercantile.
Questo è il triste stato delle nostre cose italiche – a Venezia, come a Roma o a Firenze.
Che fare, allora?
Se la logica degli interessi non conosce persuasione, e a poco valgono gli appelli alla mancanza di risorse pubbliche per il mantenimento del capitale immobiliare e infrastrutturale da cui derivano i loro proventi gli operatori turistici, bisogna per forza trovare altre strade.
Sappiamo ormai che il principale effetto dell’economia turistica nelle città d’arte è quello di un vero e proprio “spiazzamento” che l’economia turistica produce rispetto alle economie concorrenti - in primis, rispetto alla dimensione residenziale e ai servizi a questa legata.
Bene, la ricetta non è facile ma è semplice: vogliamo una tassa di scopo sul turismo i cui proventi siano destinati integralmente alla Casa. Vogliamo politiche di housing sociale di dimensioni macroeconomiche rilevanti (non le poche decine di unità immobiliari che ogni Comune si impegna a realizzare per tenere alta la bandiera della filantropia sociale).
Queste sono le voci che occorrono - quelle dei residenti cacciati dai centri storici, quelle degli studenti e dei ricercatori che non trovano nulla di decente a prezzi congrui rispetto ai loro redditi, quelle dei giovani che vogliono vivere per conto proprio, quelle delle famiglie e dei bimbi che vogliono vivere in spazi densi e vivi e non in deserti urbani – per opporsi efficacemente alle urla dei bottegai di maschere e paccottiglia, dei gondolieri e degli “intromettitori” di ogni specie. Per contrapporre davvero un’idea alta di città.
C’è un più – più risorse pubbliche per la città – e c’è un meno – meno profitti in tasca a chi guadagna e non contribuisce. Chi avrà più voce vincerà questa battaglia politica.
Chiediamo almeno di avere un’opportunità per misurarci. Per questo che i politici veri si mettano da un lato e i demagoghi e i politicanti si mettano dall’altra parte.
Giampietro Pizzo
PS: Per contribuire, sia pure in piccola parte, a contenere la grande confusione che regna nel nostro Paese, male non farebbe ricordare a tutti la differenza che passa tra tasse e imposte. Le prime sono il prezzo per un servizio pubblico; le seconde sono un contributo economico alla società in cui viviamo. Come recita la nostra Costituzione, le imposte servono a ridistribuire risorse fra chi ha molto e chi non ha abbastanza. In un’epoca di crisi, tornare all’idea delle imposte come forma di solidarietà non guasterebbe davvero!
domenica 23 novembre 2008
Oltre la crisi. Un’opportunità
La crisi che stiamo vivendo non è un fatto ordinario. Non è una crisi locale ma un fenomeno planetario; non è una semplice, seppur drammatica, crisi finanziaria ma una possibile rimessa in discussione dell’economia capitalista.
Molte cose si sono inceppate: l’autoregolazione del mercato, l’irrefrenabile accumulazione di capitale, l’autoreferenzialità della sfera economica. Soprattutto, oltre questi arcinoti e apparentemente inossidabili paradigmi, è venuta meno una più banale e sostanziale
« fiducia nei mercati ».
Ma che cos’è davvero la fiducia nel mercato? E’ pensare che una relazione privatistica tra persone, fondata su relazioni di scambio istituzionalizzate sia la causa agente di un mondo migliore: più efficiente, più giusto, migliore appunto, rispetto a desuete relazioni di reciprocità e a sepolti rapporti non mercantili.
Va detto che la fiducia nel mercato non ha solo annullato i rapporti di reciprocità tra le persone ma, purtroppo, ha fatto molto di più. Ha spazzato via, con arroganza e con violenza, un’intera storia di auto-organizzazione popolare che si era, nel dopoguerra, fatta Stato. Ha cancellato negli ultimi venti anni quella funzione redistributiva - per una maggiore giustizia ed eguaglianza economica e materiale - che abbiamo chiamato a lungo Welfare.
Quella « fiducia nei mercati » era un dispositivo ideologico potente. Così potente che - quel modo di guardare al mondo - si è trasformato un po’ alla volta in una condizione fondante, «naturale », del vivere in società. La sua forza stava nel fatto di essere considerato come inevitabile: per questo profondamente assimilato dalle menti e dai comportamenti di noi contemporanei.
Nel silenzio delle prime ore della crisi, quando gli analisti avevano smesso di pontificare e i politici non sapevano che pesci pigliare, era possibile rintracciare, oltre al panico e alla paura per l’inatteso che ci attendeva e alla fine dei rassicuranti scenari macroeconomici, un’opportunità, una piccola ma preziosa opportunità. Un’opportunità che veste la forma di un semplice ma inquietante interrogativo. E se fosse possibile intravedere, con gli occhi della crisi, un’altra e radicalmente nuova prospettiva di organizzazione materiale, sociale e culturale?
A contributo di questa tesi, vorrei provare, con un esempio, a immaginare ciò che potrebbe accadere se solo si guardasse con occhi nuovi alle istituzioni, alla politica economica, alle regole della produzione sociale.
Lo sappiamo: la crisi dei mercati finanziari internazionali ha bruciato e continua a bruciare centinaia e centinaia di miliardi di euro (o di dollari, a piacere). Si tratta di un valore storicamente prodotto dalle relazioni fiduciarie di scambio stabilite tra privati (siano essi soggetti fisici o giuridici).
Ora è venuta meno la fiducia: “Io non mi fido più di te, perché non mi fido più del segno monetario e finanziario che costituisce la nostra relazione”. E’ venuta meno perché qualcuno ha buttato alle ortiche quel minimo di etica e di regole che salvaguarda la simmetria e la sostenibilità delle relazioni umane ancor prima che contrattuali, oppure perché, come al Casinò, prima o poi il gioco finisce e “il banco vince!”.
Il collasso di questa relazione ha distrutto il valore/segno delle relazioni economiche di mercato. L’effetto valanga è ormai noto a tutti: è stato distrutto il valore azionario dei soggetti privati finanziari (banche); è crollata la fiducia reciproca tra gli istituti finanziari (nessuno è più disposto a fare credito all’altro), tra questi e i risparmiatori e tra questi e le imprese.
Nessuno si fida più di nessuno e il sistema è andato a rotoli!
A questo punto, quando l’individuo non scommette più sull’individuo, che fare?
Lo Stato deve intervenire! - si pretende da tutte le parti a gran voce. Lo Stato deve garantire! Lo Stato deve iniettare fiducia! Lo Stato deve stimolare l’economia!
Se nessuno si fida più delle banche, perché sottocapitalizzate, bisognerà ricapitalizzare le banche.
Se nessuno si fida più delle imprese, perché le banche chiudono loro il rubinetto del credito, bisognerà aiutare le imprese.
E giù miliardi di spesa pubblica, di emissioni obbligazionarie, di fondi di garanzia sovrani.
Tutto logico e ortodosso - come Mercato comanda.
Un dubbio. Ma se il fulcro è la fiducia, siamo così sicuri che la creazione di fiducia passi solo attraverso la produzione di capitale finanziario? E se la moneta è solo un “velo” che copre la relazione economica, siamo proprio certi che l’unica strada per un rinnovato patto fiduciario debba essere la stessa che ha fatto collassare il sistema? E ancora: par quale motivo il rinnovato patto fiduciario tra rispamiatori e investitori dovrebbe vestire solo panni privati?
Se è solo il pubblico – leggi lo Stato ma anche un rinnovato tessuto organizzativo di cittadini, siano essi produttori e/o consumatori o altro ancora - che può ricreare fiducia, di questo dobbiamo occuparci e non di altro.
Il meccanismo proposto - dai soliti tecnici per i soliti politici e, a loro volta, per i soliti burocrati - è anche tecnicamente perverso: io Stato emetto obbligazioni – cioè valorizzo una preesistente o rinnovata relazione fiduciaria con i cittadini – che vengono acquistate da risparmiatori; grazie alla raccolta di queste risorse pubbliche, le banche possono consolidare il loro capitale privato; un maggiore capitale privato (tier 1) consente loro di erogare più credito alle imprese, le quali, a loro volta, produrranno di più, creeranno più lavoro, etc.
Il meccanismo è chiaro: la fiducia nel pubblico è messa a disposizione della claudicante fiducia nel business privato. Perché non è possibile intervenire direttamente? Perché è una bestemmia in questo benedetto Paese parlare di intervento pubblico diretto nell’economia?
Applichiamo la semplice logica. Se i cittadini torneranno a fidarsi dello Stato – e lo faranno anche perché l’alternativa, la Borsa, si è dimostrata poco affidabile – perché quel credito non può essere speso direttamente? Perché delegare, senza sapere né per cosa né per come si erogherà credito e si investirà? Armi, energia nucleare, industria automobilistica, scuola privata, cliniche private, speculazioni edilizie, nuova e creativa finanza alla Zaleski?
Perché non tornare a una sana politica economica in cui sia possibile come cittadini scegliere ciò che vogliamo e ciò che non vogliamo? Ad esempio, finanziando quel capitale materiale e immateriale che oggi costituisce la vera crisi strutturale del nostro Paese. Per sanare quel deficit di infrastrutture sociali e ambientali che rende povero economicamente, socialmente e culturalmente il nostro Paese: case per le persone (in affitto oltre che di proprietà), ricerca scientifica, istruzione e cultura, servizi sociali di base, sanità, etc..
Chi l’ha detto che le banche dovrebbero essere degli ottimali allocatori di risorse, dopo quanto abbiamo visto in questi mesi?
Si dice, ma lo Stato è corrotto, ottuso, inefficiente. Ebbene, nel nuovo patto fiduciario per portare i cittadini a finanziare lo Stato – ad esempio, attraverso i titoli di Stato, ma lo stesso vale per imposte e tasse – bisogna saper dimostrare come e dove si spenderanno le risorse raccolte. Una nuova finanza etica pubblica insomma, per opporre ai soliti evasori, speculatori, “furbetti del quartierino”, gruppi sociali organizzati che rivendichino, difendano e governino i diritti di cittadinanza, dentro e fuori delle relazioni economiche.
Più controllo sociale per più fiducia pubblica. Più fiducia pubblica per più spesa pubblica. I Monti e i Giavazzi taceranno per una buona volta, e con loro le ancelle europee (alla Trichet) dell’economia “a inflazione zero” che ci ha portato proprio dove ora ci troviamo.
Questa possibile nuova finanza pubblica, che va oltre la crisi, aprirebbe un’inedita agenda di discussione politica. Molti dei sancta sanctorum dell’economia ortodossa dimostrerebbero la loro vacuità.
Ad esempio.
Perché la finanza di progetto non potrebbe essere applicata direttamente dai cittadini, costruendo sottoscrizioni pubbliche su singoli progetti? Dove sta scritto che solo i grandi gruppi industriali ne sono capaci?
Come cambiare concretamente l’uso sociale del credito per fare politica economica a piccola scala? La finanza etica e la finanza sociale sono in questo senso praticabili?
E le tasse di scopo? Come collegare entrate e uscite per ricreare davvero fiducia e relazione solidale?
E per finire. Pensando alla nostra esistenza e alle fragilità della vita, c’è davvero più fiducia in un fondo pensione che in una vera relazione e redistribuzione sociale?
Vi è materia per un programma politico.
Varrebbe la pena parlarne.
Giampietro Pizzo
Molte cose si sono inceppate: l’autoregolazione del mercato, l’irrefrenabile accumulazione di capitale, l’autoreferenzialità della sfera economica. Soprattutto, oltre questi arcinoti e apparentemente inossidabili paradigmi, è venuta meno una più banale e sostanziale
« fiducia nei mercati ».
Ma che cos’è davvero la fiducia nel mercato? E’ pensare che una relazione privatistica tra persone, fondata su relazioni di scambio istituzionalizzate sia la causa agente di un mondo migliore: più efficiente, più giusto, migliore appunto, rispetto a desuete relazioni di reciprocità e a sepolti rapporti non mercantili.
Va detto che la fiducia nel mercato non ha solo annullato i rapporti di reciprocità tra le persone ma, purtroppo, ha fatto molto di più. Ha spazzato via, con arroganza e con violenza, un’intera storia di auto-organizzazione popolare che si era, nel dopoguerra, fatta Stato. Ha cancellato negli ultimi venti anni quella funzione redistributiva - per una maggiore giustizia ed eguaglianza economica e materiale - che abbiamo chiamato a lungo Welfare.
Quella « fiducia nei mercati » era un dispositivo ideologico potente. Così potente che - quel modo di guardare al mondo - si è trasformato un po’ alla volta in una condizione fondante, «naturale », del vivere in società. La sua forza stava nel fatto di essere considerato come inevitabile: per questo profondamente assimilato dalle menti e dai comportamenti di noi contemporanei.
Nel silenzio delle prime ore della crisi, quando gli analisti avevano smesso di pontificare e i politici non sapevano che pesci pigliare, era possibile rintracciare, oltre al panico e alla paura per l’inatteso che ci attendeva e alla fine dei rassicuranti scenari macroeconomici, un’opportunità, una piccola ma preziosa opportunità. Un’opportunità che veste la forma di un semplice ma inquietante interrogativo. E se fosse possibile intravedere, con gli occhi della crisi, un’altra e radicalmente nuova prospettiva di organizzazione materiale, sociale e culturale?
A contributo di questa tesi, vorrei provare, con un esempio, a immaginare ciò che potrebbe accadere se solo si guardasse con occhi nuovi alle istituzioni, alla politica economica, alle regole della produzione sociale.
Lo sappiamo: la crisi dei mercati finanziari internazionali ha bruciato e continua a bruciare centinaia e centinaia di miliardi di euro (o di dollari, a piacere). Si tratta di un valore storicamente prodotto dalle relazioni fiduciarie di scambio stabilite tra privati (siano essi soggetti fisici o giuridici).
Ora è venuta meno la fiducia: “Io non mi fido più di te, perché non mi fido più del segno monetario e finanziario che costituisce la nostra relazione”. E’ venuta meno perché qualcuno ha buttato alle ortiche quel minimo di etica e di regole che salvaguarda la simmetria e la sostenibilità delle relazioni umane ancor prima che contrattuali, oppure perché, come al Casinò, prima o poi il gioco finisce e “il banco vince!”.
Il collasso di questa relazione ha distrutto il valore/segno delle relazioni economiche di mercato. L’effetto valanga è ormai noto a tutti: è stato distrutto il valore azionario dei soggetti privati finanziari (banche); è crollata la fiducia reciproca tra gli istituti finanziari (nessuno è più disposto a fare credito all’altro), tra questi e i risparmiatori e tra questi e le imprese.
Nessuno si fida più di nessuno e il sistema è andato a rotoli!
A questo punto, quando l’individuo non scommette più sull’individuo, che fare?
Lo Stato deve intervenire! - si pretende da tutte le parti a gran voce. Lo Stato deve garantire! Lo Stato deve iniettare fiducia! Lo Stato deve stimolare l’economia!
Se nessuno si fida più delle banche, perché sottocapitalizzate, bisognerà ricapitalizzare le banche.
Se nessuno si fida più delle imprese, perché le banche chiudono loro il rubinetto del credito, bisognerà aiutare le imprese.
E giù miliardi di spesa pubblica, di emissioni obbligazionarie, di fondi di garanzia sovrani.
Tutto logico e ortodosso - come Mercato comanda.
Un dubbio. Ma se il fulcro è la fiducia, siamo così sicuri che la creazione di fiducia passi solo attraverso la produzione di capitale finanziario? E se la moneta è solo un “velo” che copre la relazione economica, siamo proprio certi che l’unica strada per un rinnovato patto fiduciario debba essere la stessa che ha fatto collassare il sistema? E ancora: par quale motivo il rinnovato patto fiduciario tra rispamiatori e investitori dovrebbe vestire solo panni privati?
Se è solo il pubblico – leggi lo Stato ma anche un rinnovato tessuto organizzativo di cittadini, siano essi produttori e/o consumatori o altro ancora - che può ricreare fiducia, di questo dobbiamo occuparci e non di altro.
Il meccanismo proposto - dai soliti tecnici per i soliti politici e, a loro volta, per i soliti burocrati - è anche tecnicamente perverso: io Stato emetto obbligazioni – cioè valorizzo una preesistente o rinnovata relazione fiduciaria con i cittadini – che vengono acquistate da risparmiatori; grazie alla raccolta di queste risorse pubbliche, le banche possono consolidare il loro capitale privato; un maggiore capitale privato (tier 1) consente loro di erogare più credito alle imprese, le quali, a loro volta, produrranno di più, creeranno più lavoro, etc.
Il meccanismo è chiaro: la fiducia nel pubblico è messa a disposizione della claudicante fiducia nel business privato. Perché non è possibile intervenire direttamente? Perché è una bestemmia in questo benedetto Paese parlare di intervento pubblico diretto nell’economia?
Applichiamo la semplice logica. Se i cittadini torneranno a fidarsi dello Stato – e lo faranno anche perché l’alternativa, la Borsa, si è dimostrata poco affidabile – perché quel credito non può essere speso direttamente? Perché delegare, senza sapere né per cosa né per come si erogherà credito e si investirà? Armi, energia nucleare, industria automobilistica, scuola privata, cliniche private, speculazioni edilizie, nuova e creativa finanza alla Zaleski?
Perché non tornare a una sana politica economica in cui sia possibile come cittadini scegliere ciò che vogliamo e ciò che non vogliamo? Ad esempio, finanziando quel capitale materiale e immateriale che oggi costituisce la vera crisi strutturale del nostro Paese. Per sanare quel deficit di infrastrutture sociali e ambientali che rende povero economicamente, socialmente e culturalmente il nostro Paese: case per le persone (in affitto oltre che di proprietà), ricerca scientifica, istruzione e cultura, servizi sociali di base, sanità, etc..
Chi l’ha detto che le banche dovrebbero essere degli ottimali allocatori di risorse, dopo quanto abbiamo visto in questi mesi?
Si dice, ma lo Stato è corrotto, ottuso, inefficiente. Ebbene, nel nuovo patto fiduciario per portare i cittadini a finanziare lo Stato – ad esempio, attraverso i titoli di Stato, ma lo stesso vale per imposte e tasse – bisogna saper dimostrare come e dove si spenderanno le risorse raccolte. Una nuova finanza etica pubblica insomma, per opporre ai soliti evasori, speculatori, “furbetti del quartierino”, gruppi sociali organizzati che rivendichino, difendano e governino i diritti di cittadinanza, dentro e fuori delle relazioni economiche.
Più controllo sociale per più fiducia pubblica. Più fiducia pubblica per più spesa pubblica. I Monti e i Giavazzi taceranno per una buona volta, e con loro le ancelle europee (alla Trichet) dell’economia “a inflazione zero” che ci ha portato proprio dove ora ci troviamo.
Questa possibile nuova finanza pubblica, che va oltre la crisi, aprirebbe un’inedita agenda di discussione politica. Molti dei sancta sanctorum dell’economia ortodossa dimostrerebbero la loro vacuità.
Ad esempio.
Perché la finanza di progetto non potrebbe essere applicata direttamente dai cittadini, costruendo sottoscrizioni pubbliche su singoli progetti? Dove sta scritto che solo i grandi gruppi industriali ne sono capaci?
Come cambiare concretamente l’uso sociale del credito per fare politica economica a piccola scala? La finanza etica e la finanza sociale sono in questo senso praticabili?
E le tasse di scopo? Come collegare entrate e uscite per ricreare davvero fiducia e relazione solidale?
E per finire. Pensando alla nostra esistenza e alle fragilità della vita, c’è davvero più fiducia in un fondo pensione che in una vera relazione e redistribuzione sociale?
Vi è materia per un programma politico.
Varrebbe la pena parlarne.
Giampietro Pizzo
lunedì 27 ottobre 2008
Ritornare alla politica
Ormai è chiaro a tutti: la crisi economica che stiamo vivendo non è un incidente di percorso nello sviluppo dei mercati internazionali e nell’affermarsi di un’economia globale.
Come qualcuno ha detto in questi giorni, “il marcio è nell’economia” (Ancora vertici, 23/X/08, www.contropagina.com), perché è il meccanismo infernale dei mercati globali che ci ha condotto a questa situazione. Gli Stati Uniti sono stati, ancora una volta, il laboratorio delle contraddizioni economiche e dell’ esasperazione del profitto a tutti i costi.
La tanto decantata concorrenza internazionale ha ridotto drasticamente negli ultimi dieci anni il potere d’acquisto dei produttori; per far fronte a una domanda interna sempre più fiacca, l’unica soluzione è stato concedere crediti a tutti e su tutto: dal mutuo per l’acquisto della prima casa alle scarpe comprate a rate. Se la remunerazione del proprio lavoro non era sufficiente per ripagare i propri debiti, poco male: un nuovo credito era pronto a rifinanziare il debito pregresso. Il motore della crescita era diventato – senza che quasi nessuno se ne stupisse – il debito.
Il debito complessivo americano ha raggiunto così nel 2007 la cifra folle del 346% del PIL. Nessun paese al mondo avrebbe ragionevolmente potuto sostenere un fardello così oneroso. Ma è un debito che sembrava far comodo a tutti: agli esportatori cinesi, ai produttori di greggio e ai gestori di fondi di ogni razza e colore. Ora che la giostra si è rotta e ha sparso rottami e lamenti per ogni dove, tutti all’unisono chiedono alla mano visibile dello Stato di porre rimedio ai disastri lasciati sul terreno dalla mano invisibile del mercato.
Gli invincibili banchieri, i capitani coraggiosi, e i “prenditori” di sempre, chiedono per il “bene dell’economia” interventi all’altezza della situazione. Aiuti di stato, ricapitalizzazione degli istituti bancari in difficoltà, incentivi fiscali, etc.. Altro che Maastricht, altro che risanamento della finanza pubblica! Siamo alle solite, voi direte, la regola aurea non si cambia: “privatizzare i profitti, ma socializzare le perdite”. Eppure, in questo caso, non stiamo assistendo a un film già visto: la dimensione della crisi è tale che quei vecchi cari arnesi non serviranno a nulla, anzi rischieranno di rendere ancora più ingovernabile – semmai è concepibile - la situazione.
Lo scenario più drammaticamente credibile è che il crollo della domanda inneschi una recessione di proporzioni inaudite. Che cosa significherebbe nell’Italia di oggi una disoccupazione a due cifre? Una società come la nostra senza ammortizzatori sociali degni di questo nome, con livelli di reddito che hanno ricacciato fette consistenti di popolazione in condizioni di povertà o a rischio di povertà, potrebbe sopportare che il 10-15% della popolazione attiva sia espulsa dal mercato del lavoro?
E quali conseguenze questa situazione potrebbe generare in un contesto sociale così fragile, pregno di paure e di paventate minacce? Populismo e razzismo sono - la Storia lo ha più volte dimostrato - figli naturali della paura e dell’insicurezza.
Dall’altro, la miseria della finanza pubblica accanto alle miserie della finanza privata ha profondamente intaccato i servizi pubblici essenziali. La ricapitalizzazione delle banche e gli aiuti alle imprese quanto incideranno sul taglio di scuola, salute e previdenza?
Disoccupati senza tutela, vecchi senza assistenza, malati abbandonati: questo può significare domani la crisi finanziaria odierna.
Il mercato ha fallito: e non è, lo ripetiamo, un incidente di percorso. Per questo occorre un cambiamento radicale di paradigma.
Vanno ricercate subito nuove regole di redistribuzione e di reciprocità, per ridefinire un credibile patto sociale fra cittadini.
Vanno ricostruiti i servizi pubblici essenziali, senza se e senza ma. Se l’economia e la finanza del capitale sono le evidenti responsabili dello stato delle cose, perché il vincolo di bilancio dovrebbe condizionare le grandi scelte del vivere civile? Perché l’indebitamento pubblico per l’istruzione, la salute e la lotta alla povertà dovrebbe essere un male, mentre l’indebitamento pubblico per sostenere la finanza e i consumi privati dovrebbe essere un bene?
E’ ormai evidente che è tempo di liberarsi dalle trappole dell’economicismo ancor prima che dalle trappole della liquidità. Occorre, in modo chiaro e determinato, contrastare la sacra autonomia dell’economico che ci ha condotto a questo pericoloso grado di disumanizzazione, di povertà materiale e culturale.
Ritornare alla politica e alla sovranità delle scelte pubbliche è l’unica plausibile strada da intraprendere.
Giampietro Pizzo
Come qualcuno ha detto in questi giorni, “il marcio è nell’economia” (Ancora vertici, 23/X/08, www.contropagina.com), perché è il meccanismo infernale dei mercati globali che ci ha condotto a questa situazione. Gli Stati Uniti sono stati, ancora una volta, il laboratorio delle contraddizioni economiche e dell’ esasperazione del profitto a tutti i costi.
La tanto decantata concorrenza internazionale ha ridotto drasticamente negli ultimi dieci anni il potere d’acquisto dei produttori; per far fronte a una domanda interna sempre più fiacca, l’unica soluzione è stato concedere crediti a tutti e su tutto: dal mutuo per l’acquisto della prima casa alle scarpe comprate a rate. Se la remunerazione del proprio lavoro non era sufficiente per ripagare i propri debiti, poco male: un nuovo credito era pronto a rifinanziare il debito pregresso. Il motore della crescita era diventato – senza che quasi nessuno se ne stupisse – il debito.
Il debito complessivo americano ha raggiunto così nel 2007 la cifra folle del 346% del PIL. Nessun paese al mondo avrebbe ragionevolmente potuto sostenere un fardello così oneroso. Ma è un debito che sembrava far comodo a tutti: agli esportatori cinesi, ai produttori di greggio e ai gestori di fondi di ogni razza e colore. Ora che la giostra si è rotta e ha sparso rottami e lamenti per ogni dove, tutti all’unisono chiedono alla mano visibile dello Stato di porre rimedio ai disastri lasciati sul terreno dalla mano invisibile del mercato.
Gli invincibili banchieri, i capitani coraggiosi, e i “prenditori” di sempre, chiedono per il “bene dell’economia” interventi all’altezza della situazione. Aiuti di stato, ricapitalizzazione degli istituti bancari in difficoltà, incentivi fiscali, etc.. Altro che Maastricht, altro che risanamento della finanza pubblica! Siamo alle solite, voi direte, la regola aurea non si cambia: “privatizzare i profitti, ma socializzare le perdite”. Eppure, in questo caso, non stiamo assistendo a un film già visto: la dimensione della crisi è tale che quei vecchi cari arnesi non serviranno a nulla, anzi rischieranno di rendere ancora più ingovernabile – semmai è concepibile - la situazione.
Lo scenario più drammaticamente credibile è che il crollo della domanda inneschi una recessione di proporzioni inaudite. Che cosa significherebbe nell’Italia di oggi una disoccupazione a due cifre? Una società come la nostra senza ammortizzatori sociali degni di questo nome, con livelli di reddito che hanno ricacciato fette consistenti di popolazione in condizioni di povertà o a rischio di povertà, potrebbe sopportare che il 10-15% della popolazione attiva sia espulsa dal mercato del lavoro?
E quali conseguenze questa situazione potrebbe generare in un contesto sociale così fragile, pregno di paure e di paventate minacce? Populismo e razzismo sono - la Storia lo ha più volte dimostrato - figli naturali della paura e dell’insicurezza.
Dall’altro, la miseria della finanza pubblica accanto alle miserie della finanza privata ha profondamente intaccato i servizi pubblici essenziali. La ricapitalizzazione delle banche e gli aiuti alle imprese quanto incideranno sul taglio di scuola, salute e previdenza?
Disoccupati senza tutela, vecchi senza assistenza, malati abbandonati: questo può significare domani la crisi finanziaria odierna.
Il mercato ha fallito: e non è, lo ripetiamo, un incidente di percorso. Per questo occorre un cambiamento radicale di paradigma.
Vanno ricercate subito nuove regole di redistribuzione e di reciprocità, per ridefinire un credibile patto sociale fra cittadini.
Vanno ricostruiti i servizi pubblici essenziali, senza se e senza ma. Se l’economia e la finanza del capitale sono le evidenti responsabili dello stato delle cose, perché il vincolo di bilancio dovrebbe condizionare le grandi scelte del vivere civile? Perché l’indebitamento pubblico per l’istruzione, la salute e la lotta alla povertà dovrebbe essere un male, mentre l’indebitamento pubblico per sostenere la finanza e i consumi privati dovrebbe essere un bene?
E’ ormai evidente che è tempo di liberarsi dalle trappole dell’economicismo ancor prima che dalle trappole della liquidità. Occorre, in modo chiaro e determinato, contrastare la sacra autonomia dell’economico che ci ha condotto a questo pericoloso grado di disumanizzazione, di povertà materiale e culturale.
Ritornare alla politica e alla sovranità delle scelte pubbliche è l’unica plausibile strada da intraprendere.
Giampietro Pizzo
sabato 6 settembre 2008
Venezia città metropolitana. Un po’ di coraggio politico per non morire lentamente.
La bozza Calderoli sul federalismo fiscale riconosce sette città metropolitane : Venezia non ne fa parte, perché la popolazione provinciale non supera i 350 mila abitanti.
A parte le fondate obiezioni sul fatto se il criterio demografico sia utile per stabilire se una realtà territoriale abbia un carattere metropolitano, è chiaro che questa proposta rivela innanzitutto la debolezza e i limiti della visione politica nostrana.
Il Veneto dei mille campanili e dei dieci mila capannoni, il Veneto dei distretti e dei cluster produttivi, Il Veneto dei poli universitari e delle grandi istituzioni culturali, non è in grado di esprimere una sola, riconoscibile e riconosciuta, realtà metropolitana.
Certo, possiamo continuare a far finta di niente e limitarci a una sterile quanto inutile lamentela sulla scarsa considerazione riservata alla realtà veneta da parte del Governo centrale.
Il dato di fatto è che si raccoglie quanto si è seminato. In questi anni, si è rafforzato e non indebolito l’atavico campanilismo e il localismo più miope ; è cresciuta l’insipienza e l’inerzia politica e si è consolidata una prassi politica fondata su scambi politici ridotti ai minimi termini.
E’ chiaro che con questi ingredienti non si preparano le grandi scelte né si costruiscono progetti ambiziosi. Vince e continuerà a trionfare la logica della frammentazione corporativa, delle scelte da presentare subito all’incasso, per una manciata di voti. Di visione territoriale, di grandi scelte infrastrutturali, di progetti per vivere e lavorare in condizioni migliori, neanche a parlarne.
Eppure la storia non è ancora finita : uno scatto improvviso, una discontinuità storica, una imprevista capacità di cambiamento potrebbe non essere impossibile.
La Politica, la nostra classe politica, è ancora capace di pensare, reagire, sorprendere ?
Nella prossima primavera saremo chiamati a rinnovare il Consiglio e le strutture di governo del territorio provinciale. La campagna elettorale si è, di fatto, già aperta. Vogliono lor signori continuare sulla solita, tristissima e decadente strada, o aprirne, finalmente, una nuova che sappia riconquistare l’attenzione di noi tutti e riaccendere le speranze per una partecipazione politica attiva ?
Partiamo subito e partiamo da qualcosa di concreto : le scelte di governo per il nostro territorio.
Venezia – la città storica – può vivere solo se è parte di un territorio vivo, portatore di un progetto che sappia riconoscere funzioni e potenzialità complementari e sostenibili.
Venezia o sarà una città metropolitana o non sarà. Il resto lo conosciamo già : Disneyland, deserto urbano, economia di rapina, etc..
A questo confronto serrato e autentico chiamiamo coloro che si vorranno candidare al futuro governo del territorio veneziano. Senza infingimenti, senza facili e scontati trucchetti. Va fatto subito.
Giampietro Pizzo
A parte le fondate obiezioni sul fatto se il criterio demografico sia utile per stabilire se una realtà territoriale abbia un carattere metropolitano, è chiaro che questa proposta rivela innanzitutto la debolezza e i limiti della visione politica nostrana.
Il Veneto dei mille campanili e dei dieci mila capannoni, il Veneto dei distretti e dei cluster produttivi, Il Veneto dei poli universitari e delle grandi istituzioni culturali, non è in grado di esprimere una sola, riconoscibile e riconosciuta, realtà metropolitana.
Certo, possiamo continuare a far finta di niente e limitarci a una sterile quanto inutile lamentela sulla scarsa considerazione riservata alla realtà veneta da parte del Governo centrale.
Il dato di fatto è che si raccoglie quanto si è seminato. In questi anni, si è rafforzato e non indebolito l’atavico campanilismo e il localismo più miope ; è cresciuta l’insipienza e l’inerzia politica e si è consolidata una prassi politica fondata su scambi politici ridotti ai minimi termini.
E’ chiaro che con questi ingredienti non si preparano le grandi scelte né si costruiscono progetti ambiziosi. Vince e continuerà a trionfare la logica della frammentazione corporativa, delle scelte da presentare subito all’incasso, per una manciata di voti. Di visione territoriale, di grandi scelte infrastrutturali, di progetti per vivere e lavorare in condizioni migliori, neanche a parlarne.
Eppure la storia non è ancora finita : uno scatto improvviso, una discontinuità storica, una imprevista capacità di cambiamento potrebbe non essere impossibile.
La Politica, la nostra classe politica, è ancora capace di pensare, reagire, sorprendere ?
Nella prossima primavera saremo chiamati a rinnovare il Consiglio e le strutture di governo del territorio provinciale. La campagna elettorale si è, di fatto, già aperta. Vogliono lor signori continuare sulla solita, tristissima e decadente strada, o aprirne, finalmente, una nuova che sappia riconquistare l’attenzione di noi tutti e riaccendere le speranze per una partecipazione politica attiva ?
Partiamo subito e partiamo da qualcosa di concreto : le scelte di governo per il nostro territorio.
Venezia – la città storica – può vivere solo se è parte di un territorio vivo, portatore di un progetto che sappia riconoscere funzioni e potenzialità complementari e sostenibili.
Venezia o sarà una città metropolitana o non sarà. Il resto lo conosciamo già : Disneyland, deserto urbano, economia di rapina, etc..
A questo confronto serrato e autentico chiamiamo coloro che si vorranno candidare al futuro governo del territorio veneziano. Senza infingimenti, senza facili e scontati trucchetti. Va fatto subito.
Giampietro Pizzo
venerdì 11 luglio 2008
Un progetto per Venezia - Alcune riflessioni preliminari
Venezia è squilibrata e divergente. La politica delle specializzazioni territoriali per funzioni urbane si è rivelata disastrosa. Da un lato, la Venezia/Disneyland, soffocata da un carico turistico insostenibile e minata nella capacità stessa di produrre qualità della vita e senso all’abitare; dall’altro, la Terraferma, stretta fra un progetto di città metropolitana mai decollato e l’impossibilità di trovare una propria, autonoma e originale, modalità di vita sociale e urbana densa.
Venezia è una, non due città. Occorre riconoscere questa unità/unicità e lavorare per affermarla.
Il deficit infrastrutturale di collegamento è pesante e va sanato, pena una marginalizzazione complessiva; ma quello che rende quasi insolubile il dilemma tra le diverse opzioni tecniche di infrastrutturazione (vedi, ad esempio, la sublagunare o il Porto o, ancora, le reti ICT) è l’incapacità di rendere esplicite le scelte sociali e territoriali.
Occorre riaprire su questo un confronto ampio, democratico ed effettivo sul futuro della città.
Le ipotesi devono essere esplicitate e sottoposte a un controllo sociale ancor prima che politico, per misurarne appieno l’impatto sociale, economico e culturale.
Nel processo decisionale stesso si determineranno i futuri assetti di potere locale: se saranno ristretti, corporativi ed opachi, oppure aperti, democratici e trasparenti dipenderà in buona misura dal confronto/scontro fra due culture politiche e di governo territoriale che appaiono sempre più divergenti e confliggenti.
Le ragioni dell’economia non possono essere assolute ed autonome: questa ideologia territoriale va contrastata e rovesciata. Una buona economia rende possibile una dinamica sociale in grado di assumere le contraddizioni che si determinano al proprio interno, include e non esclude, valorizza, prima di tutto, il proprio capitale sociale.
Il centro storico deve tornare ad essere luogo del vivere, dell’abitare, del lavoro “normale” e moderno ad un tempo; Mestre e la Terraferma devono trovare nuovi baricentri: la logistica e la portualità possono essere un punto importante, così come la ricerca e l’innovazione, possono essere un “ponte” ideale per tutto il territorio lagunare.
Per questo non basta una politica di “contenimento”: contenimento del turismo e contenimento dell’esodo dal centro storico e dalle isole. Occorre una politica decisa e di attacco.
Occorre un obiettivo semplice, preciso, concreto: 50.000 abitanti in più in centro storico entro il 2020.
Il centro storico di Venezia è – e rischia di essere sempre più – demograficamente sottodimensionato: sottodimensionato rispetto al patrimonio immobiliare che esprime; sottodimensionato rispetto al ruolo che può giocare nel Nord-est; sottodimensionato rispetto all’infrastrutturazione esistente e potenziale (istituzioni pubbliche, aeroporto, università, etc..). Ma soprattutto sottodimensionato se si vuole ristabilire un rapporto meno drammaticamente impari con il livello di presenze turistiche attuali e tendenziali (20 milioni/anno).
Della crescita demografica del centro storico beneficerebbe tutto il territorio veneziano: in termini di servizi alla persona, di riqualificazione urbana, di infrastrutturazione ordinaria, di fiscalità e di risorse finanziarie in senso lato. Ma il primo e assoluto vantaggio riguarderebbe la dinamizzazione di talenti e di idee che questo nuovo flusso antropico potrebbe originare. Una dinamizzazione capace di creare opportunità e diritti non solo e non tanto per una ristretta creative class ma per tutti coloro che in questi anni hanno pagato un prezzo molto alto per il contemporaneo determinarsi, da un lato, di una drastica riduzione dell’economia produttiva in centro storico e in terraferma (operai e artigiani, in particolare) e, dall’altro, del trionfo dell’economia di rendita.
Una dinamizzazione che abbisogna non solo di una massa critica minima di popolazione residente ma anche di una rinnovata, efficace e sostenibile fluidità di movimento tra le diverse parti della città (centro storico, isole e terraferma).
Venezia città aperta, Venezia città dove vivere. E’ un messaggio politico che occorre produrre: un messaggio diretto ai territori italiani ma, ancor più, all’Europa e al Mondo.
Cinquantamila persone (artigiani, artisti, ricercatori, lavoratori immateriali, docenti, creativi, etc..) convinte che vivere a Venezia sia interessante, conveniente e fattibile.
E’ possibile dimostrare e costruire la percorribilità di queste declinazioni?
E’ possibile su questo costruire una piattaforma politica di governo della città?
L’obiettivo deve essere esplicito: dotarsi degli strumenti e creare le condizioni per rendere effettiva una abitabilità stabile (almeno quanto lo può concedere una crescente mobilità territoriale e internazionale), di qualità e socialmente equa.
Intraprendere questa strada significa, in primis, cambiare radicalmente gli equilibri nella geografia degli interessi e nella produzione del consenso. Va da sé che una Venezia come quella attuale, dove l’economia del turismo è monocratica, non consente alcun cambiamento rilevante.
Occorrono nuovi alleati dentro e fuori il centro storico di Venezia. Dentro il centro storico, rivolgendosi a quanti non vivono solo di turismo; in Terraferma, parlando a chi vorrebbe un’opportunità per tornare o per avere una diversa organizzazione delle funzioni che favorisca anche a Mestre e Marghera una migliore condizione del vivere e del lavorare. Fuori del territorio veneziano, per rendere attrattiva Venezia non solo in termini di idee e di talenti ma anche di capitali interessati all’economia non-turistica.
Venezia è una, non due città. Occorre riconoscere questa unità/unicità e lavorare per affermarla.
Il deficit infrastrutturale di collegamento è pesante e va sanato, pena una marginalizzazione complessiva; ma quello che rende quasi insolubile il dilemma tra le diverse opzioni tecniche di infrastrutturazione (vedi, ad esempio, la sublagunare o il Porto o, ancora, le reti ICT) è l’incapacità di rendere esplicite le scelte sociali e territoriali.
Occorre riaprire su questo un confronto ampio, democratico ed effettivo sul futuro della città.
Le ipotesi devono essere esplicitate e sottoposte a un controllo sociale ancor prima che politico, per misurarne appieno l’impatto sociale, economico e culturale.
Nel processo decisionale stesso si determineranno i futuri assetti di potere locale: se saranno ristretti, corporativi ed opachi, oppure aperti, democratici e trasparenti dipenderà in buona misura dal confronto/scontro fra due culture politiche e di governo territoriale che appaiono sempre più divergenti e confliggenti.
Le ragioni dell’economia non possono essere assolute ed autonome: questa ideologia territoriale va contrastata e rovesciata. Una buona economia rende possibile una dinamica sociale in grado di assumere le contraddizioni che si determinano al proprio interno, include e non esclude, valorizza, prima di tutto, il proprio capitale sociale.
Il centro storico deve tornare ad essere luogo del vivere, dell’abitare, del lavoro “normale” e moderno ad un tempo; Mestre e la Terraferma devono trovare nuovi baricentri: la logistica e la portualità possono essere un punto importante, così come la ricerca e l’innovazione, possono essere un “ponte” ideale per tutto il territorio lagunare.
Per questo non basta una politica di “contenimento”: contenimento del turismo e contenimento dell’esodo dal centro storico e dalle isole. Occorre una politica decisa e di attacco.
Occorre un obiettivo semplice, preciso, concreto: 50.000 abitanti in più in centro storico entro il 2020.
Il centro storico di Venezia è – e rischia di essere sempre più – demograficamente sottodimensionato: sottodimensionato rispetto al patrimonio immobiliare che esprime; sottodimensionato rispetto al ruolo che può giocare nel Nord-est; sottodimensionato rispetto all’infrastrutturazione esistente e potenziale (istituzioni pubbliche, aeroporto, università, etc..). Ma soprattutto sottodimensionato se si vuole ristabilire un rapporto meno drammaticamente impari con il livello di presenze turistiche attuali e tendenziali (20 milioni/anno).
Della crescita demografica del centro storico beneficerebbe tutto il territorio veneziano: in termini di servizi alla persona, di riqualificazione urbana, di infrastrutturazione ordinaria, di fiscalità e di risorse finanziarie in senso lato. Ma il primo e assoluto vantaggio riguarderebbe la dinamizzazione di talenti e di idee che questo nuovo flusso antropico potrebbe originare. Una dinamizzazione capace di creare opportunità e diritti non solo e non tanto per una ristretta creative class ma per tutti coloro che in questi anni hanno pagato un prezzo molto alto per il contemporaneo determinarsi, da un lato, di una drastica riduzione dell’economia produttiva in centro storico e in terraferma (operai e artigiani, in particolare) e, dall’altro, del trionfo dell’economia di rendita.
Una dinamizzazione che abbisogna non solo di una massa critica minima di popolazione residente ma anche di una rinnovata, efficace e sostenibile fluidità di movimento tra le diverse parti della città (centro storico, isole e terraferma).
Venezia città aperta, Venezia città dove vivere. E’ un messaggio politico che occorre produrre: un messaggio diretto ai territori italiani ma, ancor più, all’Europa e al Mondo.
Cinquantamila persone (artigiani, artisti, ricercatori, lavoratori immateriali, docenti, creativi, etc..) convinte che vivere a Venezia sia interessante, conveniente e fattibile.
E’ possibile dimostrare e costruire la percorribilità di queste declinazioni?
E’ possibile su questo costruire una piattaforma politica di governo della città?
L’obiettivo deve essere esplicito: dotarsi degli strumenti e creare le condizioni per rendere effettiva una abitabilità stabile (almeno quanto lo può concedere una crescente mobilità territoriale e internazionale), di qualità e socialmente equa.
Intraprendere questa strada significa, in primis, cambiare radicalmente gli equilibri nella geografia degli interessi e nella produzione del consenso. Va da sé che una Venezia come quella attuale, dove l’economia del turismo è monocratica, non consente alcun cambiamento rilevante.
Occorrono nuovi alleati dentro e fuori il centro storico di Venezia. Dentro il centro storico, rivolgendosi a quanti non vivono solo di turismo; in Terraferma, parlando a chi vorrebbe un’opportunità per tornare o per avere una diversa organizzazione delle funzioni che favorisca anche a Mestre e Marghera una migliore condizione del vivere e del lavorare. Fuori del territorio veneziano, per rendere attrattiva Venezia non solo in termini di idee e di talenti ma anche di capitali interessati all’economia non-turistica.
giovedì 10 aprile 2008
Per una governance diffusa della cosa pubblica
In questi anni, troppo spesso, si è detto che i cittadini sono lontani dalla politica. Questo è diventato, purtroppo, un luogo comune. E’ tempo di invertire la rotta.
Occorre, noi crediamo, ricostruire un rapporto positivo tra i cittadini e la cosa pubblica.
La cosa pubblica non è, nella nostra vita, una dimensione metafisica, astratta, perché la prima e rilevante cosa pubblica ha a che fare con il nostro territorio, con la nostra prossimità.
E’ questa, del resto, la ragione per cui abbiamo deciso di chiamare “Fondamente” il nostro gruppo di cultura politica: perché le Fondamente sono, ad un tempo, luogo pubblico e luogo nostro: luogo di prossimità.
Ora è tempo di manifestare la nostra volontà, la nostra disponibilità per la cosa pubblica; e occorre farlo in ogni occasione possibile.
In questi giorni, un’occasione si è manifestata a Venezia. L’occasione è l’avviso pubblico del Sindaco, rivolto a tutti i cittadini, per la scelta di alcune donne e di alcuni uomini da coinvolgere nell’amministrazione di rilevanti istituzioni territoriali. Alcuni sono enti vecchi, e altri novissimi. Ricordiamoli:
Fondazione Asilo Infantile Principessa Maria Letizia;
IPAB Antica Scuola dei Battuti;
Opera Pia Istituti Riuniti Patronato di Castello e Carlo Coletti;
Fondazione Querini Stampalia;
Fondazione Musei Civici di Venezia
Fondamente si è interrogata su questa scelta imminente; la nostra risposta è stata: vorremmo contribuire, vorremmo partecipare.
Le candidature che avanziamo sono, dal nostro punto di vista, adeguate, per almeno tre buone ragioni.
La prima ragione è che nessuna fra le persone che hanno deciso di depositare la propria candidatura, può essere considerata incompetente: abbiamo scelto, tra di noi, solo quelle professionalità che potessero davvero partecipare utilmente al governo di quegli enti. Ma questa, - qualcuno ha obiettato - è una condizione necessaria ma non sufficiente.
Sono seguite, allora, una seconda e una terza ragione, e queste hanno certo un carattere dichiaratamente politico: i nostri candidati devono essere disposti a, e in grado di, fungere da “tramite”, da punto di collegamento permanente, tra i cittadini veneziani e le scelte che occuperanno e che impegneranno gli organismi di governance degli enti prima menzionati; i nostri candidati devono sapere separare il proprio impegno politico dal proprio interesse individuale: e per questo, ognuno dei designati renderà disponibili i propri gettoni di presenza, relativi al loro ruolo nei rispettivi consigli di amministrazione e nei collegi dei revisori dei conti, per finanziare attività di iniziativa pubblica (per esempio, assemblee, conferenze, incontri, etc.).
Ci sembrano tre buone ragioni per considerare questa piccola proposta come portatrice di uno stile e di un metodo davvero nuovo nel governo della cosa pubblica.
Nei consigli di amministrazione, ci saranno certo anche imprenditori, banchieri, politici di professione e amministratori territoriali, ma far sì che questi organi includano anche cittadini disponibili a contribuire al governo della cosa pubblica e alle scelte difficili che questi enti dovranno compiere, è un fatto che, speriamo, nessuno vorrà escludere.
I nostri candidati sono:
1) Mario Coglitore – storico e archivista;
2) Lia Durante – storica dell’arte;
3) Daniele Gasparinetti – commercialista;
4) Paola Juris – avvocato
5) Fernando Marchiori – insegnante e ricercatore;
6) Mario Spinelli – architetto.
Occorre, noi crediamo, ricostruire un rapporto positivo tra i cittadini e la cosa pubblica.
La cosa pubblica non è, nella nostra vita, una dimensione metafisica, astratta, perché la prima e rilevante cosa pubblica ha a che fare con il nostro territorio, con la nostra prossimità.
E’ questa, del resto, la ragione per cui abbiamo deciso di chiamare “Fondamente” il nostro gruppo di cultura politica: perché le Fondamente sono, ad un tempo, luogo pubblico e luogo nostro: luogo di prossimità.
Ora è tempo di manifestare la nostra volontà, la nostra disponibilità per la cosa pubblica; e occorre farlo in ogni occasione possibile.
In questi giorni, un’occasione si è manifestata a Venezia. L’occasione è l’avviso pubblico del Sindaco, rivolto a tutti i cittadini, per la scelta di alcune donne e di alcuni uomini da coinvolgere nell’amministrazione di rilevanti istituzioni territoriali. Alcuni sono enti vecchi, e altri novissimi. Ricordiamoli:
Fondazione Asilo Infantile Principessa Maria Letizia;
IPAB Antica Scuola dei Battuti;
Opera Pia Istituti Riuniti Patronato di Castello e Carlo Coletti;
Fondazione Querini Stampalia;
Fondazione Musei Civici di Venezia
Fondamente si è interrogata su questa scelta imminente; la nostra risposta è stata: vorremmo contribuire, vorremmo partecipare.
Le candidature che avanziamo sono, dal nostro punto di vista, adeguate, per almeno tre buone ragioni.
La prima ragione è che nessuna fra le persone che hanno deciso di depositare la propria candidatura, può essere considerata incompetente: abbiamo scelto, tra di noi, solo quelle professionalità che potessero davvero partecipare utilmente al governo di quegli enti. Ma questa, - qualcuno ha obiettato - è una condizione necessaria ma non sufficiente.
Sono seguite, allora, una seconda e una terza ragione, e queste hanno certo un carattere dichiaratamente politico: i nostri candidati devono essere disposti a, e in grado di, fungere da “tramite”, da punto di collegamento permanente, tra i cittadini veneziani e le scelte che occuperanno e che impegneranno gli organismi di governance degli enti prima menzionati; i nostri candidati devono sapere separare il proprio impegno politico dal proprio interesse individuale: e per questo, ognuno dei designati renderà disponibili i propri gettoni di presenza, relativi al loro ruolo nei rispettivi consigli di amministrazione e nei collegi dei revisori dei conti, per finanziare attività di iniziativa pubblica (per esempio, assemblee, conferenze, incontri, etc.).
Ci sembrano tre buone ragioni per considerare questa piccola proposta come portatrice di uno stile e di un metodo davvero nuovo nel governo della cosa pubblica.
Nei consigli di amministrazione, ci saranno certo anche imprenditori, banchieri, politici di professione e amministratori territoriali, ma far sì che questi organi includano anche cittadini disponibili a contribuire al governo della cosa pubblica e alle scelte difficili che questi enti dovranno compiere, è un fatto che, speriamo, nessuno vorrà escludere.
I nostri candidati sono:
1) Mario Coglitore – storico e archivista;
2) Lia Durante – storica dell’arte;
3) Daniele Gasparinetti – commercialista;
4) Paola Juris – avvocato
5) Fernando Marchiori – insegnante e ricercatore;
6) Mario Spinelli – architetto.
mercoledì 2 aprile 2008
sabato 15 marzo 2008
Più pubblico in un mondo globale
Primo: pensare diversamente.
Quando si parla di globalizzazione e di competitività s’invoca molto spesso: più privato, più concorrenza! Questo è il mantra di chi si occupa di relazioni internazionali e di chi, più banalmente, si mette semplicemente nel coro.
Dalla globalizzazione, ovvero da chi nel mondo produce, investe e consuma a tutto campo, si attendono mille benefici e mille disgrazie.
Chi vede con più facilità i mille benefici, dice agli italiani: rimboccatevi le maniche ed entrate nell’economia mondiale. Da questo nuovo contesto internazionale – continuano gli apologhi dell’internazionalizazione - ne verranno più ricchezza e più opportunità per tutti.
Bello, se fosse vero!
Per chi invece vede in ritardo, ma con roboante retorica, i mali che provengono dai giganti asiatici – da quel moloch, goffamente definito “Cindia” – l’unica salvezza è la barriera protezionistica. Purtroppo questa più che una diga contro l’alta marea cinese, sembra la tardiva costruzione di un’arca di Noé per sopravvivere a un secondo diluvio globale. E se poi le acque non scendessero affatto e ricoprissero ogni cosa per qualche decennio? E se questo fenomeno fosse destinato a durare a lungo? In questo caso, forse l’arca potrebbe essere salva, ma dentro – ahimé - si ritroverebbero soltanto scheletrici cadaveri.
La globalizzazione non è un male in sé; la circolazione transnazionale di beni, capitali e uomini (pochi ancora questi ultimi, a dire il vero!) non è qualcosa di negativo. Anzi la prospettiva della fine delle frontiere, delle barriere, dei muri di ogni tipo, è un grande e nobile sogno dell’umanità.
Il male della globalizzazione ha due genitori: Tempo, il padre e Ingiustizia, la madre.
Tempo, o meglio la mancanza di tempo. E’ questa tremenda accelerazione storica che non consente alle società, alle persone, di attrezzarsi, di costruire strategie di adattamento.
Quando si parla di globalizzazione e di competitività s’invoca molto spesso: più privato, più concorrenza! Questo è il mantra di chi si occupa di relazioni internazionali e di chi, più banalmente, si mette semplicemente nel coro.
Dalla globalizzazione, ovvero da chi nel mondo produce, investe e consuma a tutto campo, si attendono mille benefici e mille disgrazie.
Chi vede con più facilità i mille benefici, dice agli italiani: rimboccatevi le maniche ed entrate nell’economia mondiale. Da questo nuovo contesto internazionale – continuano gli apologhi dell’internazionalizazione - ne verranno più ricchezza e più opportunità per tutti.
Bello, se fosse vero!
Per chi invece vede in ritardo, ma con roboante retorica, i mali che provengono dai giganti asiatici – da quel moloch, goffamente definito “Cindia” – l’unica salvezza è la barriera protezionistica. Purtroppo questa più che una diga contro l’alta marea cinese, sembra la tardiva costruzione di un’arca di Noé per sopravvivere a un secondo diluvio globale. E se poi le acque non scendessero affatto e ricoprissero ogni cosa per qualche decennio? E se questo fenomeno fosse destinato a durare a lungo? In questo caso, forse l’arca potrebbe essere salva, ma dentro – ahimé - si ritroverebbero soltanto scheletrici cadaveri.
La globalizzazione non è un male in sé; la circolazione transnazionale di beni, capitali e uomini (pochi ancora questi ultimi, a dire il vero!) non è qualcosa di negativo. Anzi la prospettiva della fine delle frontiere, delle barriere, dei muri di ogni tipo, è un grande e nobile sogno dell’umanità.
Il male della globalizzazione ha due genitori: Tempo, il padre e Ingiustizia, la madre.
Tempo, o meglio la mancanza di tempo. E’ questa tremenda accelerazione storica che non consente alle società, alle persone, di attrezzarsi, di costruire strategie di adattamento.
Quando si vogliono omogeneizzare salari europei e cinesi, quando si ignorano società e culture diverse e ricche, quando si annullano economie e civiltà materiali cresciute separatamente - in nome di una equivalenza universale chiamata Mercato-, allora ecco che pezzi di società e di storia si ribellano contro la violenza di questo processo.
Di fronte alla fisica dei vasi comunicanti, qualcuno deve porsi il problema di cosa significa la differenza di pressione fra una parte e l’altra del Mondo. Tutto rischia di essere cancellato, sia per chi cresce che per chi deve diminuire. E così, mentre in Europa o negli Stati Uniti scompaiono miseramente storie e realtà industriali nel giro di pochi mesi – lasciando solo disperazione e degrado – dall’altro, in Cina, spuntano come funghi città di dieci milioni di abitanti, con un inevitabile corollario di tragedie rurali e di disastri ambientali urbani.
Accanto alla violenza temporale, vi è un’asimmetria economica e sociale che produce a piene mani Ingiustizia.
Nell’impetuoso scompaginarsi dei fenomeni economici, gli effetti sociali sono radicalmente diversi tra chi sta in alto e chi sta in basso – da un lato e dall’altro del nuovo mondo globale.
Dice Zygmunt Bauman – acuto studioso del nuovo mondo che viene - che le società si vanno riorganizzando in due inedite classi sociali: i “mobili” e i “territoriali”. I primi rappresentano la nuova élite, in grado di muoversi nel mondo cogliendo opportunità ed esperienze; i secondi restano legati al vecchio mondo e sono le vittime del nuovo.
Per ragioni etiche e politiche, crediamo che occorra difendere i secondi, perché maggioranza e perché destinati alla sconfitta nell’attuale processo storico mondiale. I primi non solo si difendono da sé ma attaccano e intaccano duramente le condizioni dei più.
La globalizzazione è crescita e redistribuzione allo stesso tempo. E’ per questa ragione che occorre una politica pubblica forte e lungimirante. Storicamente, la dimensione pubblica, sia nazionale che transnazionale, appare non solo opportuna ma indispensabile.
Se la globalizzazione è crescita, e crescita tumultuosa che scardina ogni vincolo ambientale ed energetico, allora una politica ampia, transnazionale e rigorosa dei beni pubblici si impone. Non ci sono alternative – e lo dicono le quotazioni delle materie prime e del petrolio di questi giorni, così come lo segnalano i tassi di inquinamento delle città cinesi e indiane.
Se la globalizzazione è redistribuzione della ricchezza, una redistribuzione che fa crescere enormemente la quota dei profitti – e, in alcuni casi, come in Italia, delle rendite – a scapito dei salari, allora una politica dei redditi in senso opposto è improrogabile. Per essere il più possibile espliciti: vanno difese le condizioni di vita degli operai italiani, perché domani si possano difendere i diritti dei lavoratori a Shenzhen come a Bangalore. Ed è non solo di contratti sindacali che vogliamo parlare, ma soprattutto di servizi sociali e di diritti di cittadinanza.
Occorre investire in beni pubblici e ricostruire un autentico Welfare State: queste sono due semplici ma dirimenti priorità.
Ecco perché bisogna affermare più pubblico – e non più privato – in questo ineluttabile mondo globale.
Giampietro Pizzo
Accanto alla violenza temporale, vi è un’asimmetria economica e sociale che produce a piene mani Ingiustizia.
Nell’impetuoso scompaginarsi dei fenomeni economici, gli effetti sociali sono radicalmente diversi tra chi sta in alto e chi sta in basso – da un lato e dall’altro del nuovo mondo globale.
Dice Zygmunt Bauman – acuto studioso del nuovo mondo che viene - che le società si vanno riorganizzando in due inedite classi sociali: i “mobili” e i “territoriali”. I primi rappresentano la nuova élite, in grado di muoversi nel mondo cogliendo opportunità ed esperienze; i secondi restano legati al vecchio mondo e sono le vittime del nuovo.
Per ragioni etiche e politiche, crediamo che occorra difendere i secondi, perché maggioranza e perché destinati alla sconfitta nell’attuale processo storico mondiale. I primi non solo si difendono da sé ma attaccano e intaccano duramente le condizioni dei più.
La globalizzazione è crescita e redistribuzione allo stesso tempo. E’ per questa ragione che occorre una politica pubblica forte e lungimirante. Storicamente, la dimensione pubblica, sia nazionale che transnazionale, appare non solo opportuna ma indispensabile.
Se la globalizzazione è crescita, e crescita tumultuosa che scardina ogni vincolo ambientale ed energetico, allora una politica ampia, transnazionale e rigorosa dei beni pubblici si impone. Non ci sono alternative – e lo dicono le quotazioni delle materie prime e del petrolio di questi giorni, così come lo segnalano i tassi di inquinamento delle città cinesi e indiane.
Se la globalizzazione è redistribuzione della ricchezza, una redistribuzione che fa crescere enormemente la quota dei profitti – e, in alcuni casi, come in Italia, delle rendite – a scapito dei salari, allora una politica dei redditi in senso opposto è improrogabile. Per essere il più possibile espliciti: vanno difese le condizioni di vita degli operai italiani, perché domani si possano difendere i diritti dei lavoratori a Shenzhen come a Bangalore. Ed è non solo di contratti sindacali che vogliamo parlare, ma soprattutto di servizi sociali e di diritti di cittadinanza.
Occorre investire in beni pubblici e ricostruire un autentico Welfare State: queste sono due semplici ma dirimenti priorità.
Ecco perché bisogna affermare più pubblico – e non più privato – in questo ineluttabile mondo globale.
Giampietro Pizzo
mercoledì 27 febbraio 2008
La balcanizzazione dell’Europa
E’ incredibile come la nostra attenzione mediatica possa essere distratta.
La “lunga guerra” balcanica continua e si aggrava a pochi passi da qui, ma anche gli eventi più drammatici sembrano lontani e irrilevanti per i giornali e per il dibattito politico italiani.
Eppure la dichiarazione unilaterale d’indipendenza del Kosovo peserà moltissimo sull’Italia e sull’Europa.
Pesa e peserà su un’Europa che è ormai l’ombra di sé stessa. Un’Europa priva di significato economico e sociale per i cittadini europei e per quelli che potrebbero domani diventarlo; un’Europa – ed è questo che davvero brucia - senza uno straccio di progetto politico.
“Ognuno per proprio conto” – questo è ormai il motto con cui in Europa si fa politica estera. E mentre in Italia D’Alema dice sì, nella socialista Spagna Zapatero dice no. Nessuno si straccia le vesti ma neppure si sorprende. Sono passati dieci anni dai bombardamenti su Belgrado e ci ritroviamo ancora nello stesso clima di guerra e di odio.
Dov’è dunque finito quel grande e nobile progetto per una Europa di pace e benessere che entusiasmò molti di noi solo pochi anni fa? Sepolto, a quanto pare, sotto cumuli di insipienza, di indifferenza, di falso realismo politico; il tutto condito in una mediocre salsa americana.
Ma che cosa potrà davvero essere il Kosovo indipendente? Un micro Stato accanto ad altri micro Stati. Così fu per la Bosnia dilaniata da una guerra fratricida, così è per quella “terra di nessuno”, divenuta indipendente l’anno scorso, chiamata Montenegro.
Senza tema di essere tacciati come filoserbi, si tratta di riconoscere semplicemente che il Kosovo indipendente è il frutto di una decisione americana, sostenuta e amplificata da anni d’inerzia diplomatica europea.
Il Kosovo è indipendente ma non sarà mai indipendente. No, non è un bisticcio di parole, perché alla dichiarazione politica si accompagna – e tutti lo sanno – l’impossibilità per quel paese di essere economicamente e finanziariamente autosufficiente. Uno Stato coloniale destinato a un eterno sussidio europeo e internazionale.
Bisogna, in questo frangente, ricordare che la responsabilità della ricostruzione è stata in questi anni delegata all'ONU, e il risultato è uno Stato in mano alla criminalità: 'It is a Mafia society', dicono fonti autorevoli. Il potere se lo sono preso le bande armate, grazie alla protezione offerta dagli Stati Uniti. Per il Pentagono uno stato debole ha due vantaggi: assicura la piena extraterritorialità delle basi militari e consente alle forze occupanti di comportarsi come dei fuorilegge.
Il triste bilancio del Kosovo è di essere diventato in questi anni di “protettorato” americano ed europeo, il crocevia di una florida economia del narcotraffico, così come il Montenegro lo è da tempo del contrabbando e dei traffici illegali di armi.
Dall’altra parte della frontiera – che noi europei abbiamo contribuito a tracciare - vi è una crescente indifferenza nei confronti del dramma serbo.
Una nazione, la Serbia, smembrata e sbeffeggiata a più riprese, senza che nessuno misurasse sino in fondo la portata storica di tale condotta. Eppure la Storia insegna che quando si alimentano odî e rancori, si preparano inesorabilmente i conflitti e le guerre di domani.
L’Europa vista dai Balcani non lascia purtroppo sperare nulla di buono.
Una cosa è certa: l’Italia rischia di perdere un amico, mentre aumentano, da una parte e dall’altra dell’Adriatico, la confusione e i dissidi.
Vale la pena di ricordare, infine, che dinnanzi allo spettro della secessione nessuno è immune.
In questi giorni l’Italia e l’Europa – con la sola eccezione della Spagna - hanno contribuito a creare un terribile precedente.
E se domani qualcuno dichiarasse unilateralmente l’indipendenza basca o padana, chi oserebbe argomentare l’inconsistenza di un simile atto politico?
Giampietro Pizzo
La “lunga guerra” balcanica continua e si aggrava a pochi passi da qui, ma anche gli eventi più drammatici sembrano lontani e irrilevanti per i giornali e per il dibattito politico italiani.
Eppure la dichiarazione unilaterale d’indipendenza del Kosovo peserà moltissimo sull’Italia e sull’Europa.
Pesa e peserà su un’Europa che è ormai l’ombra di sé stessa. Un’Europa priva di significato economico e sociale per i cittadini europei e per quelli che potrebbero domani diventarlo; un’Europa – ed è questo che davvero brucia - senza uno straccio di progetto politico.
“Ognuno per proprio conto” – questo è ormai il motto con cui in Europa si fa politica estera. E mentre in Italia D’Alema dice sì, nella socialista Spagna Zapatero dice no. Nessuno si straccia le vesti ma neppure si sorprende. Sono passati dieci anni dai bombardamenti su Belgrado e ci ritroviamo ancora nello stesso clima di guerra e di odio.
Dov’è dunque finito quel grande e nobile progetto per una Europa di pace e benessere che entusiasmò molti di noi solo pochi anni fa? Sepolto, a quanto pare, sotto cumuli di insipienza, di indifferenza, di falso realismo politico; il tutto condito in una mediocre salsa americana.
Ma che cosa potrà davvero essere il Kosovo indipendente? Un micro Stato accanto ad altri micro Stati. Così fu per la Bosnia dilaniata da una guerra fratricida, così è per quella “terra di nessuno”, divenuta indipendente l’anno scorso, chiamata Montenegro.
Senza tema di essere tacciati come filoserbi, si tratta di riconoscere semplicemente che il Kosovo indipendente è il frutto di una decisione americana, sostenuta e amplificata da anni d’inerzia diplomatica europea.
Il Kosovo è indipendente ma non sarà mai indipendente. No, non è un bisticcio di parole, perché alla dichiarazione politica si accompagna – e tutti lo sanno – l’impossibilità per quel paese di essere economicamente e finanziariamente autosufficiente. Uno Stato coloniale destinato a un eterno sussidio europeo e internazionale.
Bisogna, in questo frangente, ricordare che la responsabilità della ricostruzione è stata in questi anni delegata all'ONU, e il risultato è uno Stato in mano alla criminalità: 'It is a Mafia society', dicono fonti autorevoli. Il potere se lo sono preso le bande armate, grazie alla protezione offerta dagli Stati Uniti. Per il Pentagono uno stato debole ha due vantaggi: assicura la piena extraterritorialità delle basi militari e consente alle forze occupanti di comportarsi come dei fuorilegge.
Il triste bilancio del Kosovo è di essere diventato in questi anni di “protettorato” americano ed europeo, il crocevia di una florida economia del narcotraffico, così come il Montenegro lo è da tempo del contrabbando e dei traffici illegali di armi.
Dall’altra parte della frontiera – che noi europei abbiamo contribuito a tracciare - vi è una crescente indifferenza nei confronti del dramma serbo.
Una nazione, la Serbia, smembrata e sbeffeggiata a più riprese, senza che nessuno misurasse sino in fondo la portata storica di tale condotta. Eppure la Storia insegna che quando si alimentano odî e rancori, si preparano inesorabilmente i conflitti e le guerre di domani.
L’Europa vista dai Balcani non lascia purtroppo sperare nulla di buono.
Una cosa è certa: l’Italia rischia di perdere un amico, mentre aumentano, da una parte e dall’altra dell’Adriatico, la confusione e i dissidi.
Vale la pena di ricordare, infine, che dinnanzi allo spettro della secessione nessuno è immune.
In questi giorni l’Italia e l’Europa – con la sola eccezione della Spagna - hanno contribuito a creare un terribile precedente.
E se domani qualcuno dichiarasse unilateralmente l’indipendenza basca o padana, chi oserebbe argomentare l’inconsistenza di un simile atto politico?
Giampietro Pizzo
giovedì 14 febbraio 2008
Fare società
“Fare società” non è solo una felice espressione coniata da Aldo Bonomi per descrivere la domanda che viene alla Politica dal territorio italiano.
Fare società è, prima ancora, la volontà che esprime chi, ora, in Italia, non vuole arrendersi alla dissoluzione della Politica.
Ma la Politica vive se il legame sociale torna ad essere il nesso fondatore del nostro esistere come cittadini in questo Paese e in questo tempo.
La Politica non muore se l’individualismo proprietario non azzera la grande tradizione italiana del vivere insieme.
Di fronte al tentativo di cancellazione del produttore e alla solitudine del consumatore, occorre ritrovare – sperimentando e innovando – una dimensione collettiva.
Se, come appare chiaro, l’individuo è impotente, allora la risposta non può che essere collettiva.
La libertà individuale non ha futuro senza pratiche autentiche di solidarietà, senza dispositivi che sappiano davvero garantire e valorizzare le scelte individuali. Non ci sono diritti difendibili senza autentiche eguaglianze civili e sociali.
Da questo occorre ricominciare per rendere operabile un progetto politico che “faccia società”.
Vano è credere che possa essere il Mercato il luogo dove le libertà e le uguali opportunità si affermano e crescono. Del resto, è chiaro a tutti che quando entra in scena il Mercato, il mercato globale, pressoché nulla di rilevante sul piano sociale e dei diritti è decidibile: sono sempre e solo i vincoli esterni della competitività e della credibilità internazionale a decidere al posto della Politica. Se questo è il progetto che, tanto a destra che al centro, il PdL e il PD vanno partorendo, allora l’unico spazio residuale è quello amministrativo-gestionale, con buona pace della Politica. Il mantra delle privatizzazioni e del contenimento della sfera pubblica non potrà che spianare la strada a questo riduzionismo politico. Ma davvero è pensabile che questo sia l’unico scenario?
Io, invece, voglio che il Pubblico rappresenti ancora un orizzonte possibile in cui costruire diritti e socialità. Un Pubblico come valore ancor prima che come tecnica di governo.
Deve essere questa – non altra – la forza, il sogno di una Sinistra degna di questo nome.
Ma, innanzitutto, il “voglio” deve diventare “vogliamo”. Per questo occorre ricostruire una dimensione autentica di linguaggio, di azione collettiva che sia capace di generare fiducia, di passione e progetto per tutti, di visione e di fare per ognuno.
Giampietro Pizzo
Fare società è, prima ancora, la volontà che esprime chi, ora, in Italia, non vuole arrendersi alla dissoluzione della Politica.
Ma la Politica vive se il legame sociale torna ad essere il nesso fondatore del nostro esistere come cittadini in questo Paese e in questo tempo.
La Politica non muore se l’individualismo proprietario non azzera la grande tradizione italiana del vivere insieme.
Di fronte al tentativo di cancellazione del produttore e alla solitudine del consumatore, occorre ritrovare – sperimentando e innovando – una dimensione collettiva.
Se, come appare chiaro, l’individuo è impotente, allora la risposta non può che essere collettiva.
La libertà individuale non ha futuro senza pratiche autentiche di solidarietà, senza dispositivi che sappiano davvero garantire e valorizzare le scelte individuali. Non ci sono diritti difendibili senza autentiche eguaglianze civili e sociali.
Da questo occorre ricominciare per rendere operabile un progetto politico che “faccia società”.
Vano è credere che possa essere il Mercato il luogo dove le libertà e le uguali opportunità si affermano e crescono. Del resto, è chiaro a tutti che quando entra in scena il Mercato, il mercato globale, pressoché nulla di rilevante sul piano sociale e dei diritti è decidibile: sono sempre e solo i vincoli esterni della competitività e della credibilità internazionale a decidere al posto della Politica. Se questo è il progetto che, tanto a destra che al centro, il PdL e il PD vanno partorendo, allora l’unico spazio residuale è quello amministrativo-gestionale, con buona pace della Politica. Il mantra delle privatizzazioni e del contenimento della sfera pubblica non potrà che spianare la strada a questo riduzionismo politico. Ma davvero è pensabile che questo sia l’unico scenario?
Io, invece, voglio che il Pubblico rappresenti ancora un orizzonte possibile in cui costruire diritti e socialità. Un Pubblico come valore ancor prima che come tecnica di governo.
Deve essere questa – non altra – la forza, il sogno di una Sinistra degna di questo nome.
Ma, innanzitutto, il “voglio” deve diventare “vogliamo”. Per questo occorre ricostruire una dimensione autentica di linguaggio, di azione collettiva che sia capace di generare fiducia, di passione e progetto per tutti, di visione e di fare per ognuno.
Giampietro Pizzo
lunedì 28 gennaio 2008
Crisi di governo, crisi della Politica
Dobbiamo reagire. Non possiamo fare finta di nulla.
L'indecenza, la confusione, la perdita di senso dello Stato che percorre il Paese hanno raggiunto ormai il livello di guardia.
Le ripercussioni saranno pesantissime: non è solo la credibilità delle istituzioni ad essere in discussione, ma la solidità stessa della democrazia, come valore e come pratica sociale, che rischia di essere compromessa.
Se questa è la democrazia - pensano già in molti - che me ne faccio? Perché dovrei difenderla?
Quando ci si interroga così, quando si dubita che la democrazia possa essere altro e di più di una vuota e confusa retorica, allora vuol dire che l'involuzione autoritaria, che le spinte populiste hanno già lacerato pesantemente il tessuto sociale democratico di questo Paese.
Non basta più rassicurare, non è più sufficiente il richiamo alle responsabilità della politica perché questa si emendi e si auto-riformi. Lo sfascio culturale prima ancora che politico è andato troppo oltre per pensare a soluzioni tecniche, a misure ordinarie, a leggi elettorali di questo o quel segno.
La crisi della Politica è talmente radicale che occorre tornare alla radice. Occorre tornare là dove in questi anni si è rotto il legame tra rappresentato e rappresentante, quando il primo ha abdicato alla propria partecipazione e il secondo ha perso qualsiasi capacità di ascolto.
Se questo legame si è rotto, ed è purtroppo così, allora nulla è più come prima: la Democrazia è in pericolo e la Politica sta morendo.
Ognuno di noi in questo frangente storico ha responsabilità morali e civili altissime.
Nessuno può essere mero spettatore della crisi; nessuno può atteggiarsi a disincantato e cinico osservatore degli eventi; nessuno può dire "e io che cosa ci posso fare?".
In questa situazione davvero drammatica per il futuro del nostro Paese, chi sceglie di stare a guardare è complice del disastro. Non è un tempo in cui si possa guardare altrove, in cui le scelte personali e private possano prevalere sui doveri civici. La nostra è una responsabilità individuale ancor prima che collettiva.
Non possiamo, non dobbiamo delegare. Il "delegato" è contumace, la delega priva di contenuto. Prendiamone atto.
Dobbiamo reagire. Non saranno - lo sappiamo - le elezioni a rimettere sulla buona strada questa nostra sgangherata - ma ancora nostra! - Repubblica.
Nessun politico deve - d'ora in poi - poter decidere da solo. Occorre aprire un confronto serrato ma vero. Ovunque e subito.
Non possiamo, non vogliamo delegare. Basta assistere passivamente a "Porta a Porta", "Ballarò", "Matrix" o altri bene o male-meriti talk show! Quella non è democrazia.
Non può essere "La Repubblica" o "Il Corriere" a dire ciò che è bene e ciò che è male per il Paese: nessuno di noi ha mai scelto come portavoce né Ezio Mauro né Paolo Mieli.
L'opacità, la farraginosità, la banalità dei mass media rende semmai ancora più difficile il dibattito, il dialogo, l'impegno.
Alla grande illusione sulle magnifiche sorti e progressive della democrazia televisiva e mass-mediatica occorre rispondere ricreando luoghi veri, fisici, di incontro e di contatto politico.
Le piazze, le aule, i teatri, le sale pubbliche devono tornare a riempirsi. Prima che sia troppo tardi. La vendita culturale e materiale della cosa pubblica per una manciata di voti è l'infausto orizzonte che potrebbe attenderci. Una nuova evoluta forma di privatizzazione potrebbe essere in cantiere: dopo aver privatizzato l'economia, perché non farlo con la politica? A questo pensano i Montezemolo vecchi e nuovi, dentro e fuori Confindustria. Sarebbe davvero la fine della Democrazia: essere obbligati a scegliere tra un Manager Mediaset e un Manager FIAT!
Sul futuro nostro e dei nostri figli questo scenario rischia di pesare più di montagne di immondizia.
Dobbiamo reagire.
Giampietro Pizzo
L'indecenza, la confusione, la perdita di senso dello Stato che percorre il Paese hanno raggiunto ormai il livello di guardia.
Le ripercussioni saranno pesantissime: non è solo la credibilità delle istituzioni ad essere in discussione, ma la solidità stessa della democrazia, come valore e come pratica sociale, che rischia di essere compromessa.
Se questa è la democrazia - pensano già in molti - che me ne faccio? Perché dovrei difenderla?
Quando ci si interroga così, quando si dubita che la democrazia possa essere altro e di più di una vuota e confusa retorica, allora vuol dire che l'involuzione autoritaria, che le spinte populiste hanno già lacerato pesantemente il tessuto sociale democratico di questo Paese.
Non basta più rassicurare, non è più sufficiente il richiamo alle responsabilità della politica perché questa si emendi e si auto-riformi. Lo sfascio culturale prima ancora che politico è andato troppo oltre per pensare a soluzioni tecniche, a misure ordinarie, a leggi elettorali di questo o quel segno.
La crisi della Politica è talmente radicale che occorre tornare alla radice. Occorre tornare là dove in questi anni si è rotto il legame tra rappresentato e rappresentante, quando il primo ha abdicato alla propria partecipazione e il secondo ha perso qualsiasi capacità di ascolto.
Se questo legame si è rotto, ed è purtroppo così, allora nulla è più come prima: la Democrazia è in pericolo e la Politica sta morendo.
Ognuno di noi in questo frangente storico ha responsabilità morali e civili altissime.
Nessuno può essere mero spettatore della crisi; nessuno può atteggiarsi a disincantato e cinico osservatore degli eventi; nessuno può dire "e io che cosa ci posso fare?".
In questa situazione davvero drammatica per il futuro del nostro Paese, chi sceglie di stare a guardare è complice del disastro. Non è un tempo in cui si possa guardare altrove, in cui le scelte personali e private possano prevalere sui doveri civici. La nostra è una responsabilità individuale ancor prima che collettiva.
Non possiamo, non dobbiamo delegare. Il "delegato" è contumace, la delega priva di contenuto. Prendiamone atto.
Dobbiamo reagire. Non saranno - lo sappiamo - le elezioni a rimettere sulla buona strada questa nostra sgangherata - ma ancora nostra! - Repubblica.
Nessun politico deve - d'ora in poi - poter decidere da solo. Occorre aprire un confronto serrato ma vero. Ovunque e subito.
Non possiamo, non vogliamo delegare. Basta assistere passivamente a "Porta a Porta", "Ballarò", "Matrix" o altri bene o male-meriti talk show! Quella non è democrazia.
Non può essere "La Repubblica" o "Il Corriere" a dire ciò che è bene e ciò che è male per il Paese: nessuno di noi ha mai scelto come portavoce né Ezio Mauro né Paolo Mieli.
L'opacità, la farraginosità, la banalità dei mass media rende semmai ancora più difficile il dibattito, il dialogo, l'impegno.
Alla grande illusione sulle magnifiche sorti e progressive della democrazia televisiva e mass-mediatica occorre rispondere ricreando luoghi veri, fisici, di incontro e di contatto politico.
Le piazze, le aule, i teatri, le sale pubbliche devono tornare a riempirsi. Prima che sia troppo tardi. La vendita culturale e materiale della cosa pubblica per una manciata di voti è l'infausto orizzonte che potrebbe attenderci. Una nuova evoluta forma di privatizzazione potrebbe essere in cantiere: dopo aver privatizzato l'economia, perché non farlo con la politica? A questo pensano i Montezemolo vecchi e nuovi, dentro e fuori Confindustria. Sarebbe davvero la fine della Democrazia: essere obbligati a scegliere tra un Manager Mediaset e un Manager FIAT!
Sul futuro nostro e dei nostri figli questo scenario rischia di pesare più di montagne di immondizia.
Dobbiamo reagire.
Giampietro Pizzo
venerdì 11 gennaio 2008
Chi siamo, cosa vogliamo
FONDAMENTE è un gruppo di cultura politica. Definirci "gruppo di cultura politica" è, a ben vedere, una dichiarazione d'intenti non ordinaria: anzi, è un'affermazione decisamente ambiziosa.
In un tempo in cui la politica è avvertita come lontana, come un guscio vuoto il cui compito precipuo è occultare interessi particolari e manipolare allegramente valori e opinioni, in un tempo come quello in cui ci è toccato vivere, volere mettere al centro la Politica - il suo essere "questione" - non è certo facile.
Eppure la Politica è ora più che mai uno specchio della nostra condizione individuale e collettiva; essa dice la fragilità del nostro vivere in comunità, manifesta il disagio profondo delle nostre soggettività, rivela quanto sia spesso fatua l'esaltazione dell'individualità.
Vorremmo fare di FONDAMENTE un autentico luogo di elaborazione e dibattito.
Contribuire a mantenere aperto lo spazio della Politica - anzi nella maggiore parte dei casi si tratta semplicemente di riaprirlo - è la volontà che ha animato e anima i partecipanti a FONDAMENTE.
In questi primi mesi di attività siamo alla ricerca di un difficile equilibrio: uscire dalle stereotipate logiche di appartenenza senza per questo millantare una inutile quanto falsa equidistanza tra i punti cardinali della geografia politica. Come è noto, si può difficilmente evitare di assumere una posizione precisa, e anche il fatto di non assumerla equivale sempre ad abbracciarne comunque una, quella del non esserci appunto, del non partecipare.
Ma non vogliamo neppure essere un ennesimo foro di discussione accademica, lontana, mediata e di improbabile efficacia.
Nel dissolversi delle tradizionali categorie politiche, anche il binomio teoria/prassi fatica a sopravvivere. Si tratta quindi di sperimentare, con molta pazienza e molta onestà intellettuale.
Ricostruire i luoghi della politica significa innanzitutto ricostruire il linguaggio della politica: rinominare le cose, ridisegnare l'essenziale sintassi dell'agire politico.
Tutto questo abbisogna di diversi interlocutori - dentro e fuori dei movimenti, dentro e fuori dei partiti, dentro e fuori delle istituzioni; tutto questo significa moltiplicare al massimo grado le interlocuzioni - senza luoghi comuni, senza preconcetti, senza tabù.
Come ogni buona politica insegna, chiediamo a tutti - a coloro che vorranno confrontarsi con noi e a coloro che non lo vorranno fare - di parlare franco e di rendere esplicito il proprio punto di vista.
La buona politica è bene comune, che non lascia spazio né a facili scorciatoie né a discutibili ecumenismi.
Molti dicono che bisogna essere concreti. Noi vogliamo essere concreti, ma per farlo, per rendere misurabili nel qui e ora le analisi, gli argomenti, le posizioni, nessuno si può esimere dallo sforzo di comprensione dei processi globali che coinvolgono l'Italia e il Mondo. Per questo non bastano né i tecnici né le soluzioni tecniche.
Questa ricerca, questa volontà ha vincoli temporali strettissimi. E' l'urgenza dei problemi che non lascia margini, che non concede tregua.
FONDAMENTE
gruppo di cultura politica
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