Eugenio inserisce il seguente articolo come spunto di riflessione:
La paga
Furio Colombo
Un giovane tatuato e abbronzato di nome Fabrizio Corona attraversa l’inquadratura delle nostre televisioni e tutti gli spettatori sanno, di colpo, che è lui l’eroe del nostro tempo. Come fare a dirlo? Semplice. È ricco. Non ha mai lavorato. Ha colto con prontezza alcune buone occasioni (fotografare e poi ricattare), ha saputo farlo presto (da giovane) con le persone giuste (ricattabili) nel momento più adatto, mentre l’Italia, spaventata dal lavoro precario, dalle pensioni incerte e affascinata dalla ricchezza esentasse, guarda verso il solo valore a cui vale la pena di guardare: il danaro, purché sia molto. E se in mezzo c’è la disavventura della prigione, perché non prenderla come una «isola dei famosi», il luogo da cui passano brevemente (e per poco) con sfacciata spavalderia, tutti coloro che non sanno che farsene della buona reputazione e del vecchio e superato privilegio di essere incensurato, a confronto con una solida agiatezza?
Sono tutti coloro che non dovranno mai sedersi con Padoa-Schioppa per sapere se, quando, con quanto andranno in pensione, dopo trentacinque o quarant’anni di noiosissimo, ripetitivo e magari usurante lavoro e di versamento regolare (se nel tuo piccolo sei fortunato) dei contributi previsti dalla legge, che adesso tutti definiscono «inadeguati» ma che a te portavano via quasi metà della paga. Fabrizio Corona non è solo. Lui e la sua bella ragazza non vivono nel vuoto. Quando non insultano il giudice - un impiegato statale che ha osato interferire con la loro splendida vita - entrano in un’altra inquadratura, dove c’è Lele Mora e una corte di gente giovane, ricca, esentasse, un nuovo festoso presepio a bordo piscina in cui il nuovo Gesù bambino è un pacco di milioni. Per capire Lele Mora e Corona e la nuova Italia delle «Veline» che si presentano per approvazione fisica a certi portaborse di personaggi della Farnesina (ai tempi di Berlusconi) prima di arrivare in Rai, bisogna passare attraverso la sinistra «moderna» di Ichino e Tito Boeri.
Passare cioè attraverso un percorso in cui il duro giudizio per il lavoro (“fannulloni”) e l’irritazione per ogni esitazione a tagliare tasse e pensioni sta spostando tutto il peso, tutta la attenzione su qualunque modo non regolare di guadagnarsi la vita.
Ormai sappiamo che in ogni treno, invece di due ferrovieri ce ne può essere benissimo uno solo, e - per giunta - con un piede sempre su un pedale con cui dimostra di essere sveglio e attento. Se toglie il piede, interviene la direzione.
Ormai sappiamo che, da una parte della vita, una serie di nuove leggi molto lodate come “moderne” preferiscono definire il lavoro come una serie successiva di gabbie di precariato o, come dicono certe volte con linguaggio benevolo, “di lavoro a progetto”. E, dall’altra parte, coprono di vergogna gli anziani che vorrebbero staccare dopo 35 anni o 40 anni di effettivo lavoro; si fa del sarcasmo facile sul lavoro usurante (mimando timbri e sportelli) e si accusano i vecchi di bloccare, con la loro pretesa alla pensione - e magari a un po’ più di pensione - la strada ai giovani. Lo si rimprovera a loro, non a chi - in passato - ha governato male il paese, non a chi ha gestito male o liquidato o svenduto le imprese.
Allora l’immagine di Corona, che alla sua giovane età, circondato di ragazze svestite, con foto e ricatti e allegria e libera impresa ha già accumulato milioni (di cui si vanta senza che sia mai stato verificato il suo status fiscale) diventa l'immagine dell'eroe del nostro tempo. Non vorrai entrare nella gogna del precariato, passare la vita da fannullone ed affrontare una vecchiaia in cui ti ingiungono di restituire come un maltolto un po’ di anni di vita e un po’ di pensione?
* * *
Ho rispetto e attenzione per il prof. Ichino e per il prof. Boeri, e so benissimo che esistono i “fannulloni”. Esistono, quando è possibile (ma - diciamo la verità - meno che in altri settori e livelli sociali della vita) nel lavoro salariato e stipendiato. Perché ho detto «meno che in altri settori»? Credo che la risposta sia evidente: nel lavoro retribuito con paga o salario ci sono più controlli che per Tronchetti Provera. Dubito, per esempio, che ci siano “fannulloni” nel settore privato. E domando a Ichino: quanti “fannulloni” ci saranno nel settore pubblico della Agenzia delle Entrate se c’è stato, in un solo anno di attenzione di governo, un aumento così drammatico del gettito fiscale, un aumento grande abbastanza da cambiare in parte (disgraziatamente con infinita discussione ed estenuante indecisione) i piani prudenti di questo governo? Sappiamo tutti di disfunzioni del settore pubblico come le liste di attesa degli ospedali. Ma ogni indagine, anche privata e accurata, accerta clamorose colpe organizzative delle direzioni generali e delle Regioni. E anche una clamorosa insufficienza di personale e di fondi. Abbiamo tanti scandali di malasanità in Italia,ma non quello del personale sanitario che fa festa al bar mentre i pazienti attendono nelle famose liste di attesa.E non abbiamo alcun sistema per identificare e premiare i bravi. Eppure i bravi ci sono. Sono gli impegnati, i volontari del proprio lavoro pubblico che restano in ore non pagate e tornano in giorni non previsti. Devono esserci, se in un sistema pubblico così disarticolato da sovrapposizioni di leggi, brusche variazioni di orientamento politico, strani regolamenti mai aboliti e sindacati accusati di tutto, la durata della vita umana in Italia è un po’ più lunga che in America.
Vorrei essere chiaro. Ogni contributo a migliorare uno Stato malandato e una burocrazia così ossessiva e radicata nel costume che - appena possibile - si riproduce, come un incubo da fantascienza, anche nel settore privato, è utile, importante, urgente, specie se viene da fonti esperte di strutture complesse e capaci di semplificazioni organizzative.
Ma ecco da dove viene un problema grave che - anche nei dibattiti di sinistra - sta inquinando la vita politica e persino i passaggi logici delle mille discussioni che si accendono su come cambiare il futuro. Si sovrappongono due leggende che cercherò di ripetere qui, e di chiarire.
La prima è un percorso soggettivo che addita individui colpevoli. Sono i “fannulloni” di Ichino, sono coloro che “pretendono” di andare in pensione troppo giovani (o secondo i loro comodi) nelle riflessioni di Tito Boeri. È strano come gli esperti e autorevoli “discussant” (come si dice nelle tavole rotonde anglosassoni) non vedano la futilità di disegnare la scena del lavoro e quella della fine del lavoro a partire dalla trovata di creare una gogna per il “fannullone” e una gogna per il lavoratore in fuga verso la pensione.
È strano, perché nessuno troverebbe di buon gusto dire che i commercianti fischiano Prodi e Visco perché non vogliono pagare le tasse. Diremmo subito che fischiano - santo cielo - perché pagano troppe tasse. Al piccolo imprenditore scontento diciamo che si deve prestare ascolto. È giusto. Ma ci intratteniamo volentieri con il mito del lavoratore “fannullone” e con il rito dell’operaio in cerca di via di fuga, attraverso la pensione, dalla ripetizione infinita degli stessi gesti quotidiani, come se si trattasse di intere categorie di profittatori ben accasati dentro fabbriche e uffici, sotto una pioggia di benefici a cui, anche adesso che la festa è finita, non intendono rinunciare.
Strano anche che questa “festa finita” non impedisca di promettere prontamente nuove, ulteriori facilitazioni alle imprese (giusto, se è possibile facciamolo subito) e consigli un rispettoso e attento ascolto dei fischi e dei boati dei commercianti, artigiani, professioni liberalizzate in rivolta (certo che si deve ascoltare, e sanare subito eventuali errori e ingiustizie).
Ma se si tratta di lavoratori che si allarmano (dopo decine di convegni e centinaia di telegiornali) sul crollo del sistema previdenziale e sul costo del lavoro, sempre eccessivo- ci dicono- dal 1950 ai giorni nostri, e se si allarmano e protestano, e se, protestando mettono in moto i sindacati, subito si parla, nell’ordine: di sindacati conservatori, di rigurgiti massimalisti, di politica di estrema sinistra o di sinistra antagonista. Eppure la difesa del lavoro non è mai stata di estrema sinistra o di sinistra antagonista, ma soltanto di sinistra. È sempre stata ben dentro le strutture democratiche nelle quali chi lavora vuole continuare ad avere diritto di rappresentanza e di parola. Questa sinistra infatti sa benissimo che accanto alle teorie totalmente liberista del Nobel Milton Friedman - che ispira economisti di destra come Martino e Tremonti,e anche un po’ di riformatori- ci sono le voci del Nobel Joseph Stieglitz, del docente di Princeton Paul Krugman e, in Italia, dell’amato e rimpianto Sylos Labini, che - in difesa del lavoro - hanno avuto a hanno ancora molto da dire.Hanno da dire - soprattutto - che sul lavoro, e non sulla finanza, si fonda la democrazia e quella speciale forza della democrazia che viene dalla partecipazione e dal consenso.
* * *
C’è poi una seconda leggenda che circola negli infaticabili convegni economici sempre dedicati alla “festa finita” per le donne e gli uomini del lavoro quotidiano e del reddito fisso che credevano di meritare un po’ di pace, ma che alla “festa”(che adesso è finta) non sono mai stati invitati. Citerò la leggenda con le parole di Michele Salvati (Il Corriere della Sera, 30 giugno): «È l’alternativa statalista e socialdemocratica vicina alle posizioni del sindacato e delle grandi burocrazie, condivisa da coloro che ritengono che i problemi sociali si risolvono buttando soldi addosso. Insomma il “tassa e spendi” della nota caricatura della sinistra». Tutto ciò, secondo Salvati «sta nella pancia di buona parte del popolo di sinistra». Se intende dire che il popolo di sinistra è il popolo della gente che lavora e che dunque questa gente è un po’ ansiosa sulla continuazione del posto di lavoro e sulla pensione (che forse non sarà tanto presto e non sarà tanto grande) ed è un po’ pessimista, e non partecipa alle effervescenze del “Billionaire”, ha ragione. Ma potrebbe Salvati fare un esempio di governo “tassa e spendi” fra le democrazie industriali di oggi nel mondo? Potrebbe dirci se e quando, dai tempi del “New Deal” roosveltiano che ha posto fine alla grande depressione americana, causata da un mercato che non voleva regole, esistono (e dove) «coloro che ritengono che i problemi sociali si risolvono «buttando i soldi addosso»? Ha mai visto, in Italia, l’ospedale San Giacomo (Roma) o, in Usa, l’ospedale militare Walter Reid (Washington) dove i topi convivono con i feriti e i mutilati dell’Iraq? Perché parlare di un mondo che non esiste e intanto screditare ansie e fatti e realtà e paure del mondo del lavoro quotidiano che richiedono - se mai - grandi ripensamenti delle strutture organizzative, come ai tempi di Adriano Olivetti, piuttosto che gogna e sarcasmo per il “fannullone” (a proposito, si può essere fannulloni di propria iniziativa, dentro strutture bene organizzate, efficienti, ben dirette, che funzionano?) e ironia sul prendi e fuggi della pensione? Manca il quadro largo intorno al “fannullone”, subito diventato celebre, di Ichino. Ovvero la domanda “a monte” sulla organizzazione del lavoro e la sua efficienza in cui chi lavora è partner e non clown per la ricreazione dei riformisti doc.
Manca la realtà nel paesaggio di Michele Salvati. Nessuno tira i soldi addosso a nessuno, perché i soldi sono nei tesoretti di Corona e Fiorani e Lele Mora, veri monumenti al valor civile del nostro tempo. I costi del lavoro li stabiliscono loro. La pensione, magari un po’ eccessiva, l’hanno già accumulata. E il resto è vita, ben documentata da giornali e telegiornali.
I figli di quei poveri diavoli che adesso sono col cuore in gola in attesa di sapere se devono vergognarsi di andare in pensione prima dei sessantacinque anni (sempre che non siano stati già prepensionati a cinquanta anni dalle loro pregiate ditte in successive operazioni di “snellimento” che hanno risanato centinaia di aziende e zavorrato pesantemente l’INPS) adesso, quanto a modello per il futuro, sanno dove guardare. Certamente non vorranno cadere nella trappola del lavoro, della paga, della pensione. Se non ci occupiamo del destino di chi lavora che, alla fine, se tutto va bene va in pensione con un minimo di rispetto e di dignità, Fabrizio Corona sarà il nuovo modello per la prossima Italia.
furiocolombo@unita.it
Pubblicato il 08.07.07
mercoledì 11 luglio 2007
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1 commento:
L'articolo di Furio Colombo, proposto da Eugenio, suscita in me reazioni contrastanti.
Da una parte, sì, ecco la sacrosanta difesa del valore del lavoro e dei diritti dei lavoratori; dall'altro, ho la sensazione che nel grande gioco delle contrapposizioni, si dica: teniamoci le conquiste sociali - e i valori che ne sono alla base - perché altrimenti, guardate, ecco il nostro futuro sarà costellato di ospedali americani e di veline nostrane.
Tutto vero ma:
1) non si costruisce difendendo e basta, perché le società cambiano e non si congelano; quindi, o hai un progetto di società e di cambiamento su cui e per cui lavorare o altrimenti si tratta solo di rimandare (con restauri conservativi) il collasso del sistema; è questa, io credo, la ragione per cui la sinistra ha smesso di far politica e l'unico attore sulla scena è il sindacato (che per definizione non fa politica);
2) il valore unico è il denaro- dice Furio Colombo; mi chiedo, è un dato di fatto oppure no? Perché, a seguirlo sino in fondo, sembra che la scelta fra continuare a lavorare o diventare veline o Corona's boys sia solo un mero calcolo economico e di convenienza: ricco e fannullone contro lavoratore e povero. Mi viene un dubbio: ma chi teorizzava una società più laica, meno ideologizzata, meno diversa rispetto al modello americano/occidentale, non era proprio gente come Furio Colombo? Questa è la stessa America di cui F.Colombo ci parlava già venti anni fa - e con lui il cinema e la letteratura che arrivavano dagli States.
Non si tratta invece di ricostruire un minimo di valori, di etica, di comportamenti socialmente apprezzati per togliere terreno ai Corona e far rispettare i Cipputi? E' su questa strada che io francamente mi incamminerei.
3) Sul valore del servizio pubblico bisogna essere molto ma molto più coerenti, mio caro Furio Colombo e miei cari amici democratici, perché o privatizzare è un atto dovuto per risparmiare e rendere più efficiente lo Stato - e questo significa ammettere che il pubblico non è emendabile ma solo riducibile - oppure vuol dire che occorre, in primis, investire sulla cosa pubblica sapendo che questa è un valore in sé. Solo così si potrà tagliare senza essere nemici del popolo e cacciare i fannulloni senza essere di destra. Altrimenti siamo solo dei vecchi democristiani che difendono lo status quo: lavoratori o pensionati che siano...
Mi sa che la confusione è molta sotto il sole. E, a volte, il solo buon senso non basta.
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