Le società europee versano in una condizione di gravissima
sofferenza.
Le nostre comunità soffrono perché troppi cittadini non
hanno più un lavoro – né stabile né precario - e non hanno un reddito
sufficiente per far fronte ai propri bisogni quotidiani. Soffrono perché le
nostre città sono sempre più tristi e brutte, perché la paura del prossimo e
del futuro vince spesso su ogni altro sentimento. Perché lo stare insieme, in
società, sembra essere troppo spesso un male da arginare invece che un valore e
una condizione su cui investire.
Uno stato delle cose che, in sintesi, è drammatico, per la
condizione sociale, economica e culturale in cui vivono decine di milioni di
cittadini europei, soprattutto nel sud dell’Europa, ma che coinvolge sempre più
paesi reputati come “forti”: Francia, Germania, Inghilterra.
Eppure ciò che rende ancor più drammatica la nostra
condizione di europei è che
nessuno sembra potere e sapere immaginare come uscire da questa crisi
decennale, da questa che è la più
grave crisi dalla fine della seconda Guerra Mondiale.
Contro e nonostante i tanti predicatori del fare facile,
della risposta immediata e risolutoria, quello di cui forse abbiamo un
impellente bisogno è di capire. Capire quello che è successo, perché è successo
e quali sono i nodi, le questioni essenziali da affrontare: da risolvere.
La Storia ufficiale che ci è stata raccontata è questa: un
pezzo dell’Europa è governata male, con democrazie esposte alle facili
promesse, preda di molteplici interessi tra loro incompatibili, e alla cui
logica tutti si sono piegati, piccoli e grandi; questa vulnerabilità si è
inevitabilmente tradotta in un mare di debiti e di sprechi a compensare le
inefficienze del Pubblico e i ritardi della Politica.
Prima o poi, dunque, secondo questa Narrazione, i nodi sono
destinati a venire al pettine: i debiti pubblici o privati vanno pagati e per
farlo occorre una cura dimagrante, con meno spese pubbliche e più
privatizzazioni, per far ripartire l’economia, il lavoro, eccetera eccetera. Pazienza,
ci dicono gli “gnomi” a Bruxelles, a Francoforte o a Roma, se questo vuol dire
rinunciare, per qualche decennio,
a servizi pubblici ai quali ci siamo abituati e che davamo per scontati:
Salute, Istruzione e Previdenza.
Inettitudine e Corruzione sarebbero insomma alle origini dei
mali dell’Europa mediterranea, di quei paesi dal nome così evocatorio: PIGS.
Ma questa narrazione storica è credibile? Le cose stanno
davvero così?
Se la risposta è sì, la strada che si sta seguendo in Grecia
sarebbe quella giusta. Se la risposta è sì, ognuno è chiamato a “fare i compiti
a casa”, senza lamentarsi troppo e sapendo che, alla fine, “i conti torneranno
a posto”. E’ questa la lezione adottata da Monti in Italia, da Samaras in
Grecia, da Rajoy in Spagna, eccetera.
E’ questo l’ordine europeo del cosiddetto “fiscal compact” che, applicato
all’Italia, significa: ogni anno abbattere il debito pubblico nazionale di
circa 50 miliardi (cioè meno spesa pubblica per Sanità, Scuola, servizi sociali
per un valore corrispondente) per 22 anni, sino a raggiungere il mitico e
indiscutibile obiettivo di un debito inferiore al 60% della produzione
nazionale (se poi, a causa di queste misure, il PIL si riduce e il debito non
scende, ancora pazienza!, e dovremmo aggiungere ulteriori misure di riduzione e
taglio per un numero supplementare e indefinito di anni). Poco importa se
questo provvedimento getta alle ortiche conquiste essenziali della civiltà
europea (sistemi di welfare che il Mondo ci invidia, un patrimonio culturale da
“manutenere” e difendere, una cultura della solidarietà e dell’accoglienza, etc.)
o rinnega importanti decisioni prese pochi anni fa (come la Strategia di
Lisbona che puntava sulla costruzione della migliore economia della conoscenza
con l’obiettivo di almeno un 3% del PIL di ogni Stato membro investito in
ricerca e sapere).
Del resto, recitano da più parti gli stessi “gnomi” di cui
sopra: non è possibile che la virtuosa Germania possa sopportare il peso delle
pigrizie mediterranee, né che si metta a repentaglio l’intera stabilità monetaria
e finanziaria europea!
Eppure vi è anche un’Altra Storia, un altro modo di leggere
e raccontare quanto è accaduto nel nostro continente negli ultimi venticinque
anni.
Questa Storia ci dice che l’Europa “virtuosa”, la rinomata
locomotiva tedesca, ha fondato il proprio formidabile sistema economico-finanziario
su un meccanismo di divisione dell’Europa in due macro-regioni: un’Europa
destinata a produrre beni e servizi e una seconda Europa, minore e marginale, chiamata
a consumare quello che la prima produce.
Per rendere effettiva e irreversibile questa divisione del
lavoro tra produttori e consumatori - specializzazione applicata del resto
anche in altre aree del Pianeta (pensate alla relazione commerciale e debitoria
tra Cina e USA) -, occorrevano determinati strumenti di politica economica.
La politica economica prescelta è stata quella monetaria e
lo strumento numero uno è stato proprio l’Euro.
L’introduzione dell’Euro – con quelle parità di cambio tra
le vecchie monete nazionali fissate nel 2000; nel nostro caso 1.936 lire per
un’unità della nuova moneta unica - ha permesso negli ultimi quindici anni
all’economia tedesca di far crescere in modo considerevole le proprie
esportazioni interne al mercato europeo; nel contempo, specularmente, a causa
di una generalizzata perdita di competitività monetaria, gli Stati dell’Europa
latina e greca hanno inesorabilmente peggiorato la loro bilancia commerciale,
importando sempre di più ed esportando sempre di meno.
In un primo tempo quello squilibrio commerciale è stato
compensato da un crescente indebitamento nazionale nei confronti delle grandi banche
europee (in primis, verso quelle tedesche o di altri gruppi finanziari
multinazionali). Un meccanismo che faceva contenti tanto gli industriali
tedeschi che i grandi gruppi bancari alla ricerca di stati nazionali[1]
su cui collocare le eccedenze
finanziarie prodotte dai surplus commerciali.
Poi, ecco il 2008: la crisi finanziaria internazionale ha
messo a nudo l’inconsistenza e la precarietà di quel modello economico europeo.
L’urgente necessità delle banche internazionali, esposte su molti fronti, di
qua e di là dell’Atlantico, di tamponare le perdite di portafoglio riducendo le
loro esposizioni creditizie, ha innescato quella crisi del debito pubblico
greco, spagnolo e italiano che tutti abbiamo vissuto.
Quella stessa solerzia con cui i gruppi finanziari si erano
prodigati a comprare titoli di Stato dei PIGS si traduceva ora in un’arrogante
richiesta di smobilizzo immediato.
Per risanare i bilanci delle banche occorreva da parte
tedesca recuperare le proprie esposizioni
nei confronti dei Paesi che avevano comprato per decenni beni e servizi
dall’Europa “virtuosa”, e che virtuosa non sarebbe stata senza quel mercato
europeo.
Ecco qual è l’origine del rialzo dei tassi d’interesse e del
successivo tormentone sullo spread tra Bund tedeschi e BOT italiani, spagnoli e
greci.
Il resto è storia recente, una storia amara fatta di pesanti
tagli sulla spesa pubblica, su dismissioni industriali e su lunghe liste di
privatizzazioni. Non solo un welfare fatto a pezzi e ormai moribondo, ma un
intero sistema industriale liquidato e fortemente ridimensionato. Un dato per
tutti: dal 2008 al 2013, l’Italia ha registrato un calo del 25% della propria
produzione industriale: un quarto dell’intera industria nazionale è letteralmente
scomparso. Fenomeni che accentuano, invece di ridurre, gli squilibri, in una
corsa sfrenata verso un’efficienza che si trasforma altresì in inedia, povertà
e sperpero di uno storico patrimonio industriale e tecnico.
Come e su che cosa dovrebbe poi risorgere l’economia
italiana e mediterranea, dopo aver liquidato intere filiere industriali e
mandato al macero il talento artigiano e lo spirito imprenditoriale diffuso di
più nazioni? E ancora, su cosa, dopo aver ridotto al lumicino il potere
d’acquisto dei lavoratori e debilitato fatalmente la domanda per il mercato
interno?
Ma se le cose stanno davvero così, e allo stato attuale non
vi sono dati che possano ragionevolmente contraddire e negare questa lettura
dei fatti, allora la domanda per il futuro dell’Europa è una sola: com’è
possibile rimettere sui binari l’economia europea senza cambiare radicalmente questo
modello di produzione, socialmente e territorialmente squilibrato? Come
risolvere un dualismo economico che ci rende più simili a paesi sottosviluppati
con enormi disuguaglianze sociali che ai paesi europei di trent’anni fa?
Una disuguaglianza che si è alimentata su questo modo
bipolare di intendere l’Europa, sacrificando strutturalmente i redditi da
lavoro per concentrare sempre più la ricchezza in poche mani, è chiaramente un
modello insostenibile. Ed è proprio questa bipartizione tra paesi esportatori e
paesi importatori all’interno del mercato europeo che ha favorito e reso
permanente la crescente polarizzazione tra capitale e lavoro, tra rendita e
salario.
Cambiare dunque il modello economico europeo, caratterizzato
da questa assurda divisione delle funzioni economiche produzione/consumo, è
senza dubbio la priorità.
Del resto, più si concentrano le ricchezze e i patrimoni in
poche mani (pochi Paesi, pochi gruppi economico-finanziari e, infine, pochi
individui) più l’economia soffre (ecco il dilagare della disoccupazione di
massa), e più soffrono la Società e la Democrazia.
Qui si ferma questa schematica e forse semplificata lettura
del nostro oggi.
Subito dopo può iniziare il dibattito sul che fare, e su come
cambiare lo stato delle cose.
E proprio lì inizia il compito della Politica.
Venezia, 19 febbraio 2014
Giampietro Pizzo
[1] Una vecchia
storia che puntualmente si ripete. Basta riandare alla gravissima crisi del
debito latinoamericano degli anni ’80 per ritrovare la stessa dinamica (in quel
caso tra Nord e Sud del Mondo).
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