Venezia, Parco di Villa Groggia, 9 giugno 2007, ore 11.
Secondo incontro del gruppo Fondamente
Sintesi degli interventi
Giampietro Pizzo chiede se ci sono commenti rispetto all’incontro precedente (Isola della Certosa, 26 giugno), anche riguardo la gestione della riunione e la scelta dei temi in discussione. Lamenta la mancanza di un documento di “capitalizzazione” di quanto emerso in quella occasione.
Fernando Marchiori trova inopportuna la scelta di allegare alla convocazione di questo secondo incontro degli appunti scritti a mano che evidentemente andavano elaborati e organizzati. Può dare l’impressione all’esterno che solo a ciò si sia ridotto il lungo confronto alla Certosa, dal quale invece sono emersi elementi di riflessione anche piuttosto alta. Si propone come verbalizzatore della presente riunione. Propone anche di dare un nome, sia pure provvisorio, al gruppo, anche per firmare collettivamente future convocazioni, eventuali documenti, ecc.
Silvia Raccampo Si era proposta per oggi la questione della società bloccata nel nostro Paese. Certo può essere anche un modo per reinterpretare il tema della complessità. Ma in generale si chiede se sia corretto condizionare la discussione con proposte di riflessione già predeterminate o non sia meglio piuttosto arrivarci in modo più aperto, per esempio attraverso scambi di opinioni in un blog.
Fernando chiede di riassumere i punti del “documento programmatico” del primo incontro, a beneficio dei nuovi partecipanti.
Giampietro rilegge la parte finale del documento, quella riguardante l’Italia come società bloccata, e poi anche l’elenco delle questioni chiave e delle dicotomie emerse, sottolineando l’importanza di scendere sempre nella concretezza, di riportarle anche a un vissuto concreto della realtà cittadina, per verificarne immediatamente la tenuta e per riportarle a una dimensione più pubblica.
Pubblico/privato: la privatizzazione anche a livello sociale è diventata normale; la sfera del pubblico viene comunemente percepita come residuale, negativa. La questione rimette in discussione molti nostri comportamenti privati.
Diritti/privilegi: estensione dei diritti, certo, ma attenzione alle contraddizioni, perché per esempio l’estensione dei “diritti universali dell’uomo” è oggi anche la giustificazione della guerra in Afghanistan o in Iraq. Dall’altre parte è evidente la crescita dei privilegi, accettati in maniera passiva da chi li subisce (normalità delle diseguaglianze).
Religione/laicità: dicotomia che permea nuovi comportamenti e scelte politiche, aprendo falde contraddittorie anche a sinistra. Quale possibilità di costruzione di una laicità autentica a fronte di una società sempre più multiculturale?
Welfare: si investe su persone, saperi, conoscenze? In Italia no. Si assiste invece a una decapitalizzazione del patrimonio pubblico, per esempio non si investe nella scuola pubblica, nell’università, nella ricerca…
Vecchi/ giovani: la spaccatura generazionale è un’altra declinazione del tema diritti/privilegi.
Fisco/spesa pubblica: doppia possibile lettura: necessità di investimento pubblico in strutture collettive e rapporto sempre più difficile tra Stato e contribuente.
Ambiente/crescita: dalla ricerca di uno sviluppo sostenibile alle teorie “antisviluppiste” che rifiutano la logica di uno sviluppo infinito, l’idea (anche di tanta sinistra) che la nostra società è in difficoltà semplicemente perché l’“economia non cresce”.
Lavoro/tempo libero: il valore del lavoro, quale il suo spazio/senso in una società complessa nella quale il tempo libero non si riduce a un tempo di “non lavoro”?
Locale/globale: limiti di una politica che cerca di dare risposte tutte sul piano locale, mentre sono le questioni più generali che bloccano scelte e possibilità. Rischio di schizofrenia tra il qui e ora e il globale.
Guerra/pace: indebolirsi di una cultura della pace mantenibile in un equilibrio di rapporti di forze e che non ha peso reale nella politica internazionale, mentre si è tornati a fare politica interna attraverso la guerra.
Erano poi emersi altri temi forti, per esempio quello della legalità. Ricorda infine lo sforzo di chiarificazione terminologica che ha accomunato molti interventi nel primo incontro, quasi a cercare un nuovo glossario minimo comune.
Yasser I punti appena ricordati comprendono praticamente tutto, ma non è così che si colma il vuoto tra la classe politica e la gente comune. Un linguaggio difficile e grandi analisi rischiano di essere degli ostacoli nella realizzazione di qualcosa di concreto. Consiglia di partire da una cosa piccola, a portata di mano, e una volta realizzata quella procedere un gradino alla volta.
Giampietro Il bisogno di azioni concrete è di tutti. Ma è possibile agire oggi efficacemente, produrre un cambiamento concreto se non si produce un cambiamento nel modo di pensare? Si tratta di provare a pensare diversamente il problema.
Yasser Porta la sua esperienza: da una grande discussione con alcuni amici è nato cinque anni fa un Gruppo di Acquisto Solidale: erano 7 persone, oggi il gruppo coinvolge oltre 50 famiglie e ha ottenuto l’attenzione del Comune, l’impegno anche delle istituzioni.
Alberta De Grenet Nell’altro incontro ci siamo chiesti: che ci facciamo qua? Come procediamo? Sono emerse varie ipotesi: impegnarsi in azioni dimostrative (raccogliamo le cartacce in campo); chiamare degli esperti a intervenire su temi specifici; continuare a incontrarci in luoghi aperti, pubblici. Comunque non abbiamo per ora lo scopo di fare qualcosa di pratico. Questo sembra delinearsi come un gruppo di riflessione teorica.
Claudio Peressin I temi generali prima presentati rischiano di non portare a nulla. Bisogna certo che dietro un’eventuale azione ci sia una riflessione, ma è anche necessario stare nelle cose che ci accadono intorno. Porta l’esempio di gruppi e comitati sorti a Venezia contro il Mose, contro le “grandi navi” o contro l’inquinamento provocato dal traffico della tangenziale di Mestre. Spesso non si tratta di persone sprovvedute, perché per es. discutere del traffico in tangenziale significa anche mettere in discussione un modello economico.
Silvia D’accordo. Stiamo cercando di smettere di pensarci separati. Affrancarci dalla separazione cartesiana tra mente e corpo. Per evitare che nell’affrontare i dieci temi generali si parli a vuoto, si tratta di sfaccettarli in tutta la loro complessità, di incarnarli, trovando gli strumenti non solo intellettuali per cambiare lo stato delle cose.
Fernando Dovremmo sempre tener conto che accanto a una crisi di rappresentanza della politica, c’è anche una questione che ha a che fare con la rappresentazione della politica. Il “teatrino” mediatico, il confronto dematerializzato, la realtà virtuale, la “personaggizzazione” della politica. Una deriva iniziata con il mutamento antropologico denunciato da Pasolini e che oggi si compie con il Grande Fratello. Stentiamo ad accorgerci di essere già in una “Second Life”. Siamo come dentro una bolla.
Yasser Ma io ho il bisogno di concludere qualcosa. Riflettere va bene, ma dopo?
Giampietro No alla vecchia politica: prima l’analisi e poi l’azione. L’azione è efficace se insieme è cambiamento del modo di pensare. La società è bloccata perché io sono bloccato. Siamo in una bolla ma abbiamo ancora la possibilità di sapere che siamo dentro questa bolla, la possibilità di pensare che c’è qualcosa d’altro fuori. E’ questo il disagio che blocca la nostra società. Cercare di pensare in un modo diverso è già un modo per uscirne.
Fernando Perché è proprio su questo piano che i poteri politici ed economici hanno lavorato su di noi in questi decenni, cioè sull’immaginario, sulla rappresentazione, ed è solo su questo piano che possiamo provare a rispondere. Intanto smascherandolo.
Lino Iannaccio Partire dalle piccole cose (bene l’esperienza dei GAS ecc.), ma poi ci vorrebbe la sintesi che porti alla rappresentanza politica: una volta era il Partito, ma oggi il partito è partito. Eppure un discorso più ampio ci vuole. Se lo specchio è la società, io determino me stesso in rapporto a quanto e come entro in rapporto con essa.
Credo che in questo Paese ci sia un problema di moralità. Bisogno di una assunzione di responsabilità in prima persona, per una diversa rappresentazione della società.
Dare risposta alle singole solitudini.
Difficoltà a entrare a fare politica in partiti e sindacati. E infatti stanno perdendo, “Ma adesso non voglio buttarla in politica.”
Nuovi strumenti. Anche il vecchio “intervento” non serve a niente. E’ diventato un genere, come i dibattiti televisivi, con una sua struttura preordinata, uno svolgimento retorico. Meglio la conversazione, il dialogo, dove posso smascherare chi non è onesto nel confronto, la strumentalizzazione, il controllo sociale.
Laura Gagliardi Esprime contentezza per la convocazione. Difficoltà da molto tempo a fare politica, solitudine. Bisogno non solo di appartenenza ideologica, ma anche di condivisione del sentire. E’ d’accordo sull’importanza del ricominciare a pensare. Non solo dire no, ma costruire un sì, attraverso una consapevolezza che nasce dal confronto. Sul fare è critica: non sempre il fare è veramente un fare, non sempre aggiunge qualcosa.
Rivendica la sua appartenenza alla sinistra, cosa che probabilmente accomuna i presenti.
Paola Tiozzo Ritorna su una questione già sviluppata e apprezzata nel primo incontro: non voglio collocarmi preventivamente, anzi: il mio essere qui nasce da un azzeramento delle mie appartenenze.
Fernando Ricorda come nel primo incontro sono stati messi in discussione gli stessi termini di destra e sinistra affrontando questioni concrete. Per es., riconoscere il merito è di destra o di sinistra? Si è anche deciso di incontrarsi in un parco o in un luogo pubblico proprio per evitare dei luoghi troppo connotati politicamente (per es. la sede di Rifondazione Comunista che pure era stata proposta).
Giampietro In una discussione aperta entrano processi di falsificazione, di messa in discussione, ma anche processi di validazione. Per quanto mi riguarda una dei motivi di questi confronti è la verifica dell’ipotesi del socialismo nella nostra società. E’ un’ipotesi che tiene? Non dobbiamo rispondere ripescando vecchie categorie, ma portando fino in fondo dei discorsi, sviluppando dei ragionamenti, come quello su diritti e privilegi, per esempio. Anche questa è un’azione: un’azione che modifica il nostro “stradario mentale”.
Mario Coglitore Completamente d’accordo con l’intervento di Paola. Anch’io sono qui perché ho fatto un percorso politico e temo di aver fatto un errore. Quello del PCI è stato il più devastante effetto politico nella storia della Repubblica. Ciò non vuol dire rinunciare a una cultura di sinistra, ma provare a rileggere criticamente un percorso. Bisogna che in questi confronti si rivaluti il termine “critica”. Critica e autocritica, altrimenti si fa solo scontro, e anch’io per molto tempo ho fatto solo critica senza mettermi in discussione. Ovviamente qui stiamo tra la psicologia e la terapia di gruppo…
Giampietro Ci sono i tempi e i ritmi della costruzione del nuovo. Non strutturare gli interventi, gli incontri, è un valore. Senza paura che si parli di sé. Rompere la separatezza tra pubblico e privato. Non si tratta più di delegare la sintesi al segretario di partito.
Laura Rivendica il suo essere di sinistra, il poter usare positivamente il termine “compagno”. Volontà di partire dal vissuto personale. Non azzera nulla della sua storia politica, perché lei non ha conosciuto le logiche di partito ma quelle del movimento, dentro il quale è stata attivamente per almeno quindici anni, dalle scuole superiori fino a dieci anni fa.
Claudio Uno dei motivi per cui la nostra società è bloccata e siamo come in una bolla, è il fatto che non solo siamo stati messi in quella bolla, ma ci siamo entrati noi stessi. Uno dei limiti della sinistra (del PCI) è stato quello di aver detto: noi siamo i migliori.
Invece, da quando si è rotto il movimento, gli è capitato di vivere esperienze di impegno con persone diversissime tra loro e non solo di sinistra, per esempio nel suo lavoro in un campo profughi durante la guerra in Bosnia.
Impasse: se cerco di fare qualcosa con quelli che la pensano come me, rischio di non riuscire a fare niente; se mi trovo a farle sto con persone che la pensano diversamente.
Giampietro Siamo parte di questa società, ne abbiamo dunque anche la fragilità, che oggi si coniuga in una maniera precisa: siamo disposti a metterci in discussione su alcune cose ma probabilmente non su tutte. Non laddove abbiamo degli interessi, per esempio professionali. Questa appartenenza a singoli interessi è il segno che la privatizzazione è avvenuta, ci ha pervasi, ne portiamo le cicatrici. Superare questa sclerosi di interessi, altrimenti il blocco della società è in noi, la fragilità della società è questa nostra schizofrenia.
Paola Se guardo la mia vita professionale le più grandi fregature e discriminazioni sono venute da persone di sinistra. Dunque posso parlare di me solo come individuo, azzerando appartenenze e provenienze ideologiche.
Silvia La posizione di Paola è corretta anche dal punto di vista sociologico. Precari, immigrati, vecchi, giovani, sono realtà che hanno completamente sconvolto le nostre categorie. Giampietro e Paola mi sembrano su prospettive opposte.
Fernando Da qualche parte si incrociano: da un lato si tratta di verificare la tenuta di valori ideali (nel caso di Giampietro il socialismo) scrostandone le gabbie e le storture ideologiche; dall’altro lo scrostarsi di dosso ogni appartenenza è condizione necessaria al recupero di una propria storia personale, di una identità.
Alberta A monte di tutto questo non c’è solo la storia della sinistra, ma proprio la storia italiana, la mancanza di unitarietà e di senso civico. Non si può non tenerne conto, anche sul piano della provenienza personale.
Mario Verificare se abbiamo un comune sentire.
Claudio Che cosa vuol dire per te “comune sentire”?
Mario Se condividiamo dei valori morali, per usare l’espressione di Lino, io preferisco dire “valori etici”, la parola “morale” mi sa troppo di Chiesa.
Cristina Toso Proviamo a vedere quali sono questi valori. Prendiamo un punto per cominciare, per esempio la meritocrazia che più volte è emersa nei discorsi anche l’altra volta.
Laura Partiamo da un nostro desiderio. Restando nella propria esperienza. Mi sono allontanata dalla politica, anche di genere, perché volevo partire da me. Ognuno parli come sa.
Lino Sentire non è ancora condivisione di valori. Io parlerei di sensibilità alla reciprocità. Si tratta di valorizzare l’individuo, non le idee. Il nostro stare qui, oggi, va in questa direzione.
Giampietro Come ridinamizzare la nostra società, come rimetterla in moto? Era questo il tema proposto per oggi. Proviamo ad affrontarlo. Qual è l’immagine che riusciamo a proiettare in avanti per ricostruire una dimensione di socialità?
Claudio Porta l’esempio di un gruppo di donne di Cannaregio che praticano forme di solidarietà reciproca organizzandosi spontaneamente.
Alberta Venezia è una città che agevola i rapporti sociali, anche le classi sociali sono molto mescolate. Dovremmo sfruttare queste caratteristiche anche per allargare il nostro gruppo, coinvolgendo persone diverse. Torna alla questione della semplicità di linguaggio che poneva Yasser: se volessimo davvero espanderci, dovremmo parlare all’esterno come ci si rivolge ai bambini.
Laura Esalta la pratica femminista di queste donne.
Giampietro Resta il fatto che queste cellule sane non riescono poi a cambiare un organismo sociale che è malato.
Lino Forse sono delle monadi.
Yasser Ecco che si parla partendo da fatti piccoli. Sarebbe bene che ognuno partisse da esperienze concrete, personali.
Giampietro Ma quell’esperienza non è un fossile? Non lo facevano anche le nostre nonne di badare vicendevolmente ai bambini ecc.?
Alexandra Geese Esistono relazioni piccole tra gruppi, legate alla scuola per es. Ma si fatica a metterle insieme. Quella veneziana è un’esperienza di amicizia allargata. Quanto alla società bloccata, bisogna tener conto che c’è un contesto economico mondiale, che è la mancanza di alternative al capitalismo, e c’è una dimensione italiana di stallo.
Giampietro Sappiamo portare all’esterno, espellere le negatività ma non le progettualità. Abbiamo smesso di credere alla positività della dimensione pubblica. Sul discorso del merito: con l’idea di meritocrazia si rischia di pensare di inserire una novità, mentre ci iscriviamo in una logica americana che non appartiene alla nostra storia. E poi non si risolve nella competizione delle individualità, nel tutti contro tutti? Del resto proprio questo è il prodotto di una società fragile, nella quale le mie paure personali le riorganizzo in una logica di microsocietà con chi mi è più vicino. Ma se sviluppiamo il ragionamento: le mamme che formano un gruppo a Cannaregio non risponde alla stessa logica di chi fa una lobby?
PAUSA
Fernando D’accordo con l’analisi sociologica di Giampietro sulla “lobby” delle mamme di Cannaregio. La dimensione politica di un’esperienza del genere è semmai quella delle “banche del tempo”, pubbliche (appunto) perciò aperte a tutti. Quanto alla meritocrazia, sarebbe meglio buttare questo termine e considerare semplicemente, accanto alla uguaglianza delle opportunità, anche la giustizia e la correttezza. L’insegnante o l’impiegato comunale che firmano la presenza e poi se ne vanno a casa, è giusto che abbiano lo stesso stipendio e le stesse garanzie di chi cerca di svolgere al meglio il proprio dovere? E’ giusto che nei concorsi universitari raccomandazioni e nepotismi prevalgano sempre più sui curricula e sui titoli? Succede così nel resto d’Europa?
Eugenio Parziale pone la questione delicatissima dei valutatori: chi stabilisce e certifica il merito?
Silvia Forse dovremmo riconsiderare i 10 temi iniziali, per esempio ponendo ancora il grande tema dell’Altro che sta a cuore a qualcuno di noi, che prima mi diceva, a proposito degli immigrati: è giusto che vengano qui? O non sarebbe più giusto che rimanessero (che permettessimo loro di rimanere) a casa loro? Dovrebbe votare Lega per questo? E’ una provocazione, naturalmente, ma pone un problema concreto.
Giampietro E’ un’altra declinazione della questione del blocco della società. Che ha distrutto e dimenticato ciò che era e non sa riorganizzarsi elaborando un progetto. La nostra società non è né carne né pesce.
Mario Che vuol dire né carne né pesce? E perché negli ultimi interventi (Fernando, Giampietro) esce finalmente il concetto di Europa? Quale Europa intendiamo, viste le difficoltà di integrazione ecc.?
Giampietro Esistono dei caratteri che sono nella storia dell’Europa, per es. l’organizzazione del lavoro, il riconoscimento dei diritti, ecc. Credo nell’appartenenza all’Europa. Meritocrazia, retorica del mercato, scarso ruolo del pubblico ecc. sono invece “valori” importati chiavi-in-mano da un altro contesto, quello americano. Prova ne sia il Partito Democratico che stanno importando in Italia, il fatto che non siano stati neppure capaci di trovare un nome diverso a un partito che nasce sul modello dell’omonimo americano.
Alexandra Ricorda la paura crescente, più o meno motivata, i continui richiami al problema della sicurezza. Ci si sente soli, vulnerabili. Non c’è più un’appartenenza di classe, e neppure professionale vista la necessità di cambiare più volte lavoro nel corso della vita. A ciò si aggiunge lo smantellamento dello stato sociale, in Italia come in Germania e nel resto d’Europa.
Lino Né carne né pesce? Da quando mi sono avvicinato alla politica la società italiana è sempre stata “in transizione” (era un tema caro ad Amendola). Transizione o schizofrenia?
La Costituzione prevede il riconoscimento del merito, ma noi no lo abbiamo considerato, e adesso importiamo il concetto di meritocrazia.
Ritrovare la dignità pubblica per poter tornare a fare politica. Se non entro in conflitto con ciò che è sporco, con ciò che “non va bene” (che sia nel condominio o nell’ambiente di lavoro) non sono degno di occuparmi di politica, perché mi nascondo nella mia bolla di individualità nella quale perseguo il mio particulare. Voglio proprio usare il termine “moralità”.
Giampietro In una società cesaropapista come la nostra la regola è lo scambio. La buona contabilità degli scambi è oggi la politica. Abbiamo cannibalizzato tutte le ipotesi di emendamento, tutti i progetti di riforma.
Stefania Marangoni Sulla questione “meritocratica”: il problema è non tanto chi valuta, come ha detto Eugenio, ma piuttosto i criteri di valutazione. E’ l’unicum italiano. In Europa gli altri Paesi hanno un progetto, dunque valutano. In Italia no. A scuola oggi lo vedi bene: chi ha un’idea di scuola, di educazione, sono per es. i ragazzi moldavi, mentre i nostri sono già “marci”, il valore che hanno introiettato è quello del telefonino.
Laura difende l’esperienza del gruppo femminista. Non si tratta di un gruppo nato per necessità o bisogno, ma per un riconoscimento. Ci siamo scelte, messe in relazione sul piano non solo intellettuale, e “ci autorizziamo”. Crede nelle relazioni politiche tra donne.
Giampietro Vuoi dire che c’è una società al femminile che si è salvata?
Laura Non si è salvata, si è costruita. C’è la politica e c’è la politica di genere.
Vari interventi (Fernando, Stefania, Giampietro, Silvia e altri) sono nettamente critici. Ricordano che la questione della critica di gender è già stata sollevata nel primo incontro, ma in termini di dispositivo dialettico da mettere in campo nelle relazioni, nell’analisi dei fenomeni sociali ecc. Qui la questione è posta in modo diverso, come una pratica che da una parte esclude, dall’altra si erge come modello. In sostanza: come può un’esperienza personale come questa (che nessuno mette in giudizio) intervenire sulla politica? Come può contribuire a costruire un “progetto di società”, che evidentemente è “per tutti”?
Laura ricorda che si tratta di esperienze diffusissime nel mondo. Sono realtà separate perché per ora non è facile portare questa pratica politica all’esterno, allargarla. Contesta che si possa considerare un pratica di gender quella “ideologica” indicata tra gli interventi precedenti, mentre qui si tratta della concretezza della sua vita.
Fernando Forse Laura confonde “teoria” con “ideologia”. E comunque può essere ben concreta (e né teorica né ideologica) la questione del gender applicata all’insegnamento, praticata nelle relazioni interpersonali quotidiane, nell’analisi dei fenomeni sociali o dei processi culturali. Mentre sembra davvero ideologica la posizione di Laura.
Seguono vari interventi di commento che si sovrappongono confusamente.
Lino Riappropriarsi di una decisionalità politica. Non voglio tornare a pratiche di sopravvivenza, a logiche di “movimento” che lascio ai giovani. Oggi, qui, parlando nel parco, abbiamo fatto politica, cioè abbiamo cercato di collegare le monadi isolate.
Giuseppe Santillo interviene sulla questione della “meritocrazia”: il merito di per sé non è garanzia di una società nuova.
Giampietro riassume il senso del “nuovo” per la politica. Un processo aperto, inserendosi nel quale si possono produrre certi esiti piuttosto che altri; onestà intellettuale, anche nell’attaccare i luoghi comuni. Nei luoghi comuni spesso si annidano gli aspetti peggiori dei nostri automatismi. E nel contempo essere “visionari”, perché ci vuole una visione più ampia delle cose. “Voglio affrontare il problema delle scoasse davanti a casa, ma lo voglio fare avendo ben chiaro il quadro complessivo e anche la mia appartenenza a un sistema di blocchi sociali che si va costituendo.” Poi ribadisce la necessità di andare fino in fondo anche su questioni che sembrano inattuali o che possono essere impopolari: patrimoniale (di cui nessuno parla più), pensioni (lo scalone, su cui attacca la posizione di Rifondazione; e a proposito di gender: è giusta l’età differenziata tra uomo e donna per la pensione?), reddito di cittadinanza…
Lino Misurarsi con il fenomeno del non-voto. Torna la questione della rappresentatività.
Eugenio Paradosso: proliferazione di liste e partiti, mentre sentiamo che nessuno ci rappresenta veramente.
Lidia Si presenta: è un’esponente trevigiana di Rifondazione. Ha ascoltato. Conferma la sensazione di alcuni: ci sono molti altri gruppi spontanei che si incontrano in giro per l’Italia. Ha osservato le dinamiche dei due gruppi presenti fin dal mattino nel parco: il nostro e quello di una serie di amici con numerosi bambini che hanno portato giochi e cibo. Noi ci siamo avvicinati, abbiamo cercato un contatto nella pausa del panino. Loro non hanno dimostrato interesse per quello che stavamo facendo. Loro sarebbero la società: bisogna trovare forme di coinvolgimento.
Giuseppe Superare la forma partitica. “Rifondazione è un partitino novecentesco, dove manca la democrazia e il rispetto per le individualità”. Si può pensare oggi a un grande partito della sinistra, in cui ci possano essere uomini e donne liberi, pluralità, gruppi? Sulle pratiche politiche delle donne: sono importanti ma non devono diventare ideologia, bisogna cercare di portarle in un contesto più grande.
Silvia Dovremmo cominciare a chiederci quali sono i nostri interlocutori, quali i compagni di strada.
Stefania Porta l’esempio dei comitati, per esempio quello contro le “grandi navi” a Venezia…
Silvia Spiega la sua reazione forte alle parole di Laura tornando a parlare di “ideologia” e proponendone una definizione. Ribadisce: il rifiuto di ogni atteggiamento mentale di tipo ideologico dovrebbe essere per noi un fondamentale.
Vari cenni d’assenso. Poi ancora strascichi di discussione e chiarimenti personali. Sono le ore 17. Si decide di dare un nome al gruppo: Fondamente. E di ritrovarsi sabato 23 giugno.
mercoledì 13 giugno 2007
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commento
La settimana nera di Rifondazione comunista
MARCO REVELLI
Su ciò che è accaduto a Roma una settimana fa si è discusso ampiamente. Sul palcoscenico di piazza del Popolo è andata in scena, con la plasticità degli eventi simbolici, la «caduta» di Rifondazione comunista: il fallimento della sua linea politica, non solo degli ultimi mesi ma degli ultimi anni. Dico di Rifondazione comunista, anche se non è l'unica a aver allestito quella piazza, perché è stata la formazione politica che più di ogni altra aveva puntato sul «rapporto con i movimenti» (per usare l'espressione di rito) e insieme che più aveva dato per far nascere e sostenere il governo Prodi. Ora, nel vuoto di quella piazza - e nel pieno delle strade «alternative» circostanti - poteva constatare con quanta rapidità almeno un quinquennio di lavoro «con il sociale» (diciamo: da Genova in poi...) fosse stato azzerato da poco più di un anno di presenza nell'esecutivo.
Il sabato nero della «sinistra radicale di governo» - si può dire così? - non può essere tuttavia separato da ciò che è avvenuto la settimana successiva, e che ha riempito le prime pagine di tutti i giornali. Intendo la devastante crisi d'immagine che ha colpito i massimi vertici dei Ds con la diffusione delle intercettazioni relative alle scalate bancarie. Che non è questione di «complotti», di «follia italiana», di gossip o di malcostume informativo: forse c'è anche questo, ma non è la questione principale. E neppure un aspetto secondario - di «costume», appunto - di una lotta politica che si svolge su ben altri terreni. E', al contrario, la prova desolante del livello di degrado politico, etico, persino linguistico e - l'espressione è estrema, ma non ne trovo un'altra adeguata - «antropologico» di quel pezzo di classe politica a cui buona parte degli elettori di sinistra aveva pensato (illudendosi) di poter affidare il risanamento morale del nostro paese. E' la fine di quella residua legittimazione morale che aveva costituito l'ultimo, tenue filo di continuità di un'Italia che continuava a credere nella politica perché s'immaginava e l'immaginava «altra» rispetto alle orge del potere berlusconiane. Il lessico degli «intercettati», gli argomenti usati, gli uomini con cui e di cui parlano (avete presente il «compagno» Ricucci?), la superficialità e l'arroganza che trapelano, la logica affaristica che esprimono, il piglio da «razza padrona» che denunciano, non costituiranno di per sé (almeno per ora) prove di reato. Ma ragione di una delegittimazione politica totale (da «sen vajan todos»), questo sì, almeno da parte di chiunque non condivida un realismo e un cinismo di tipo tardo-bolscevico alla Ferrara.
Le due sinistre
Può dunque apparire come una terribile beffa del destino che, nel corso della stessa settimana, entrambe le «due sinistre» italiane cadano insieme. Che mentre esplode la crisi della più importante componente della «sinistra moderata» impegnata a convergere drasticamente e definitivamente verso il centro, contemporaneamente imploda la linea politica del partito che più avrebbe potuto «capitalizzarne» gli esiti, o comunque contribuire alla nascita di una più vasta alternativa organizzata a sinistra lungo un percorso di dialogo col «sociale». E che per anni si era preparato a questo momento. Né mi sembra, sinceramente, che la voragine che si va aprendo «in alto» possa essere riempita, in tempo utile, da ciò che si muove «in basso».
Il corteo che sabato scorso ha attraversato Roma è stato grande, non c'è dubbio, bello, multicolore e polifonico (almeno nella sua stragrande maggioranza e fino a cinque minuti dalla fine). Ha dimostrato che un nucleo ampio, massificato, di partecipazione attiva contro la guerra e per l'autodifesa dei territori non si lascia intossicare dai miasmi che escono dal palazzo. Può sopravvivere all'asfissia dei piani alti. Ma non prefigura ancora un'altra «politica possibile». Non rappresenta neppure tutto l'esteso tessuto partecipativo che si era materializzato a Genova nel 2001, con i centri sociali e le parrocchie, i militanti della sinistra radicale e i boy scout, la rete Lilliput di Alex Zanotelli e la Fiom di Claudio Sabattini tutti fusi insieme... Ne costituisce solo l'anima «politicamente organizzata», più una sorta di partito in pectore che non il «movimento dei movimenti». Per questo, la legittima soddisfazione dei suoi organizzatori, se travalica in gioia trionfale mi ricorda un po' chi celebri una festa di compleanno nella sala da ballo del Titanic.
Il fatto è che lo spettacolo (inguardabile e terribilmente triste) a cui stiamo assistendo in questi mesi è quello di una sinistra che «viene giù» tutta insieme. Che cade in tutte le sue componenti, nel quadro di una più generale «crisi della politica». Di un mutamento genetico delle caratteristiche stesse del «politico» - dei suoi ambiti spaziali, delle sue forme espressive e organizzative, dei suoi valori di riferimento e delle sue concrete possibilità di azione - che fa venir meno il contesto stesso in cui l'identità della sinistra si era strutturata. E' cioè la politica del «moderno» - quella fondata sulla centralità della «forma-stato» e della sua sovranità su base nazionale, sulla relativa autonomia della decisione politica, sulla responsabilità territoriale dei diversi attori sociali e politici, sulla possibilità di localizzarne i conflitti e di regolarne le forme - che cade. E trascina con sé nella crisi il proprio primogenito legittimo, la «sinistra» appunto, colpendo mortalmente uno dei cardini della sua esistenza come entità «politica»: il principio di rappresentanza. La possibilità stessa di tradurre le domande e i conflitti sociali in forma politica.
E' questo, oggi, il capo delle tempeste di ogni sinistra: questa difficoltà a tener fede all'imperativo della responsabilità dei rappresentanti nei confronti dei propri rappresentati, che riproduce su scala allargata l'immagine, reale, della «casta» chiusa. Dell'oligarchia dominante. Del «ceto» mosso più da solidarietà (affinità, complicità...) interne e «orizzontali», che non da un qualche rispetto per i propri elettori a cui chiedono una legittimazione tradita.
Ho detto «difficoltà» a tener fede, e avrei anche potuto chiamarla «impossibilità», e non «cattiva volontà» o «indisponibilità», per sottolineare il carattere in buona misura «obbligato» della patologia. Il suo stare nell'ordine (o nel disordine) delle cose, in un contesto dai confini labili, in cui i vincoli di coalizione e delle relazioni trans-nazionali sono feroci, e tagliano spesso le connessioni verticali con la propria gente e i propri territori.
Interlocuzione lobbistica
Non è che i «politici di professione» non ne siano consapevoli. La destra lo sa benissimo, e trova in ciò conferma della propria affermazione totalitaria dell'esistente come unica idea regolatrice, e della propria conclamata «passione per gli interessi». A sinistra, una parte ha evidentemente pensato di far fronte alla crisi sciogliendovisi dentro, e puntando (quasi) tutto sull'interlocuzione lobbistica e sul tentativo di «comprarsi» una parte di sistema economico per ripartire di lì a ridisegnare il profilo del capitalismo italiano (quello che hanno fatto da sempre gli «altri»). Un'altra parte, logorata la rappresentanza, ha giocato le proprie carte sulla rappresentazione di sé come icona simbolica di un'identità altrove introvabile. Ma sono state, entrambe, risposte di corto respiro: l'una destinata a incagliarsi nell'intrico delle cordate e nelle loro implicazioni giudiziarie. L'altra a inabissarsi sulle piazze.
Un pensiero piccolo di fronte a eventi grandi - «epocali» suggerisce qualcuno -, è rovinoso. E credo che sia disfi nelle mani di chi vi lavora, prima ancora di vedere la luce. proprio dal pensiero, dall'elaborazione di un linguaggio e di una rete di categorie capaci di reinterpretare il presente, che si dovrebbe ripartire, se non si vuole che anche l'ultima chance offertaci oggi, la costruzione di un'ampia area politica, sociale e culturale non conciliata con l'esistente ma capace di pesarvi e dire la propria, si
Da Il manifesto del 16.6.2007
Provo a inviare questo articolo che potrebbe essere utile per riflessioni e approfondimenti
Lino
Lo avevo letto anc'io qualche giorno fa. Che dire? Vorrei che Revelli oltre a "certificare" l'impasse e la crisi, si adoperasse per uno sforzo teorico e di pensiero politico. Quello che non dobbiamo e non possiamo essere ci è chiaro. Ma la politica non può essere solo un'ancella della filosofia e non può diluirsi in necessarie ma insufficienti analisi sociologiche.
Occorre forse lavorare - come diceva Gramsci - alla costruzione di uno "spirito popolare creativo". Che cosa è per me questo "spirito popolare creativo"? E' la capacità di innervare attorno a ipotesi di lavoro inedite su questioni rilevanti nuove forme di comunicazione e di organizzazione che rispondano davvero alle aspettative di socialità e di pensiero collettivo. E' l'impossibilità di potersi riconoscere davvero in termini di bisogni sociali e di forme di comportamento autentico che rende oggi tutto così vuoto e "svuotabile" (a partire dai movimenti e dalla loro brevissima vita). Uso una parola vecchia ma forse nuovissima: occorre ritrovare il bandolo che trattiene la costruzione di una nuova "egemonia" popolare. (Su cosa sia popolare oggi bisognerebbe lavorare molto) Altrimenti siamo tutti destinati al silenzio e alla morte civile.
Giampietro
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