martedì 19 febbraio 2013
Costretti a un voto di protesta
La campagna elettorale volge finalmente al suo epilogo. E’ un sollievo sapere che tra meno di una settimana questo cicaleccio inutile, questa perdita di denaro pubblico e privato, questo modo indecente di intendere la politica avranno termine.
Se le elezioni rappresentano il momento più alto e importante della vita democratica, ebbene, stante la condizione pietosa in cui versa il dibattito pubblico italiano, ciò vuol dire che lo stato di salute della nostra democrazia è davvero molto critico.
Due fattori concorrono a rendere drammatica la situazione: la gravità della crisi economica e sociale che attraversa il Paese e la delegittimazione ormai conclamata delle istituzioni repubblicane, a partire proprio dal Parlamento che siamo chiamati ad eleggere.
Da più parti, in questi giorni, si fa appello alla responsabilità degli elettori per giustificare e riproporre la cosiddetta teoria del voto utile. Qualcuno vorrebbe addirittura resuscitare un inutile – questo sì - bipolarismo ormai morto e sepolto. Ma la stragrande maggioranza dei cittadini italiani sa bene che non ci troviamo a dover scegliere tra distinte e opposte coalizioni. Non abbiamo infatti davanti a noi alcuna seria proposta di cambiamento e di governo del Paese su cui esercitare una scelta. Non sono scelte né il richiamo ai peggiori istinti corporativi e distruttivi della agonizzante destra berlusconiana, né le proposte del centro-sinistra, il quale ha ormai assunto la teoria del “vincolo esterno” di Draghi come parte integrante della propria azione politica. Per non parlare poi del “tecnico” Monti, sempre meno tecnico e sempre più confuso sul da farsi. Demagogia berlusconiana versus impotenza del centro-sinistra: sarebbe questa la scelta elettorale?
Lo svuotamento democratico del nostro Paese è così allarmante che l’unica possibilità rimasta al cittadino italiano è quella di dare voce al proprio disagio esprimendo fino in fondo il proprio dissenso.
Nessun cambiamento sarà possibile – è ormai evidente - senza una secca rottura con il passato: basta con le insopportabili responsabilità di questo ceto politico; basta con il modello di società iniqua che si è andata affermando, e che viene presentata ogni giorno come l’unica possibile; basta con le decisioni di politica economica e sociale compiute in questi anni e alle quali pressoché tutto l’arco politico parlamentare ha direttamente o indirettamente concorso.
Tacciare il disagio politico degli italiani come pulsione populista è stato ed è tuttora un gravissimo errore: del resto, questo stesso giudizio è figlio di una separazione ormai consumata e irreversibile tra classe politica e cittadini.
Se gli addetti ai lavori denominano populista la domanda per un cambiamento autentico delle regole della Politica, del rapporto con le Istituzioni dello Stato, dell’etica negli affari e nella funzione pubblica, allora io mi dichiaro populista.
Se è populismo denunciare il fatto che questo modello di Europa è dannoso e che il modello tecnocratico e liberista sta uccidendo le società e la cultura europea, allora io mi dichiaro populista.
Troppi campanelli d’allarme sono stati suonati inutilmente in questi anni chiedendo che giungesse subito un segnale forte di svolta; è illusorio pensare che questo possa provenire ora da quelle stesse forze politiche che hanno dimostrato la loro lunga e oggettiva incapacità di far fronte alla crisi. Peggio, i quindici mesi del governo Monti hanno aggravato ancora di più la situazione istituzionale e sociale: questo in nome di un sedicente risanamento imposto da Bruxelles e Francoforte, una ricetta che se protratta si concluderà con un collasso sociale analogo a quello della Grecia.
Non vi sono più margini disponibili. Il voto di domenica prossima può dire solo una cosa: per voltare pagina queste forze e questa logica politica devono essere sconfitte e abbandonate.
La moda dei trasformismi di partito e dei loro presunti leader deve anch’essa soccombere, per lasciare finalmente spazio a qualcosa di radicalmente diverso, un cambiamento di cui è ancora difficile immaginare i contorni, ma che si va preparando innanzitutto nelle coscienze dei cittadini italiani. Come nel passato in situazioni analoghe, non vi può essere costruzione se prima non si mette la parola fine a questa pessima fase storica neutralizzando subito gli agenti responsabili del disastro che ci coinvolge.
Per questo non vi sono voti utili da chiedere domenica, si tratta semmai di avere l’umiltà e l’onestà necessarie per sentire la voce di un popolo che vuole senza esitazione voltare pagina.
Venezia, 19 febbraio 2013
Giampietro Pizzo
venerdì 15 febbraio 2013
Carnevale: vogliamo un bilancio sociale
Ancora una volta, inesorabile, è arrivato il Carnevale. “Venezia invasa”: questo uno dei titoli della stampa locale. 120 mila, 150 mila persone sono arrivate ogni giorno in città: due volte, o anche più, il numero dei residenti (i quali, nel frattempo, o hanno attraversato in senso contrario il Ponte della Libertà per fuggire all’invasione o si sono rifugiati nelle poche e sempre più esigue zone “nascoste” della città).
Già lo sappiamo: per pochi giorni, si accenderanno duri battibecchi tra chi denuncia l’insostenibilità di un turismo invadente e onnivoro e chi, con scaltro realismo, ricorderà che di questo, cioè di turismo, e non di altro, vive la città.
Poi gli ultimi echi polemici svaniranno come neve al sole sino al sopraggiungere della prossima onda turistica.
Eppure il Carnevale non è l’Acqua alta, questo fenomeno non risponde a relativamente imprevedibili eventi atmosferici: no, il Carnevale è stato inventato, voluto e praticato dai decisori pubblici che hanno amministrato la città negli ultimi trent’anni (re-inventore del Carnevale fu negli anni ‘80 l’allora Assessore al Turismo Maurizio Cecconi).
“La città così muore” dichiarano taluni, dentro e fuori Ca’ Farsetti. “E’ il mercato, bellezza!” replicano altri dai posti di comando dell’Amministrazione comunale e da alcune associazioni di categoria (salvo poi periodicamente piangere per i transitori cali di presenze e chiedere interventi straordinari a sostegno).
Bene, prendiamo atto che vi siano punti di vista diversi in materia: taluni sottolineano prima di tutto il costo ambientale e sociale di questo tipo di turismo mentre talaltri, spesso in sordina, ricordano che questa è la vera ricchezza dell’economia cittadina.
Ma possiamo saperne di più, possiamo capire davvero cosa significhi per Venezia il flusso turistico dei grandi eventi? E’ dato conoscere prima di decidere e magari cambiare politica?
Gli strumenti esistono, basterebbe applicarli. Si chiamano, ad esempio, “bilancio sociale”.
Si tratta di misurare davvero le entrate economiche e sociali, private e pubbliche, del Carnevale e di confrontarle con le spese dirette e indirette collegate a questa situazione.
Per esempio: di quanto aumentano i ricavi degli operatori turistici veneziani e quanto di questo maggiore reddito si trasforma in gettito fiscale per le magre casse comunali?
Di quanto aumentano le spese comunali per la pulizia straordinaria delle vie cittadine, per i servizi di ordine pubblico e per la manutenzione ordinaria della città? Senza dimenticare nel calcolo le risorse pubbliche destinate al Carnevale dalla Venice Marketing Eventi.
Ma, sia chiaro, un bilancio sociale non può limitarsi a un mero calcolo economico. Occorrerà stimare quale sia il disagio per tanti residenti che deriva da un difficile se non impossibile accesso ordinario ai servizi cittadini - dal servizio di trasporto urbano al servizio di nettezza urbana che in alcune aree più o meno frequentate della città viene talvolta sospeso per dirottarlo in “zone più centrali”.
Tutto questo e molto altro ancora è sicuramente misurabile e calcolabile.
Chiediamo dunque che l’Amministrazione comunale si doti subito di questo strumento e lo presenti non appena concluso alla città.
Al di là dei soliti brontolii che durano poche ore e che nulla cambiano, sarebbe davvero un buon modo per conoscere finalmente i benefici e i costi di quello che ormai sembra essere un fenomeno ingestibile (molto più di tanti fenomeni atmosferici prevedibili e arginabili) e che invece può e deve essere governato. Si tratta di partire semplicemente dalla volontà e dalla decisione della comunità cittadina. Ma per questo bisogna sapere che cosa sta accadendo. Allora, per favore, calculemus!
Giampietro Pizzo
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