lunedì 3 dicembre 2012
Riaprire una speranza di democrazia e di cambiamento
Care/i tutte/i,
aderiamo con convinzione all’appello “Cambiare si può”. Lo facciamo come piccola comunità politica, ma lo facciamo, ancor prima, come persone che guardano con preoccupazione alla condizione di crisi in cui versa il nostro Paese, ai molteplici bisogni che non trovano risposte, alle domande sociali prive di voce e di rappresentanza.
E’ vero: il sistema sta andando in pezzi e questo collasso rende ogni previsione fallace e ogni visione insicura. Eppure è proprio in un momento così buio che occorre cominciare a preparare il domani. E’ nel punto più basso della speranza collettiva che dobbiamo sapere alimentare una volontà di rinnovamento. Per sorreggere questo sforzo occorrerà rimettere al centro valori e principi comuni capaci di unire invece che dividere; bisognerà ritrovare un discorso politico condiviso nell’attuale caos linguistico che produce isolamento e solitudine. Questo bene comune è la Costituzione italiana, una Costituzione per molti versi disattesa e che è ogni giorno sotto attacco da parte di politiche emergenzialiste e liberiste nazionali ed europee. Sono quei principi costituzionali che possono aiutarci a ritrovare la strada, per rompere finalmente lo stato di subalternità ideologica al liberismo e per ricostruire un tessuto sociale e una comunità politica.
Molte e molti di noi hanno in questi anni vissuto esperienze politiche fallimentari e portano addosso i segni di quelle sconfitte e di quelle delusioni. Ritrovarsi e riconoscersi come persone che cercano una cultura politica nuova, fondata sulla partecipazione, la trasparenza, la sobrietà, l’ascolto, l’educazione alla cittadinanza attiva, è un fatto importante; si tratta di stabilire positivi punti fermi in mezzo a tanta difficoltà.
Ragionare a Sinistra di tutto questo significa immaginare e cominciare a costruire un percorso capace di riunire persone e associazioni portatori di un pensiero e di un’azione nuovi, liberi dalle logiche d’interesse e scambio politico che hanno purtroppo determinato la fine di molte esperienze politiche di partito e di movimento.
Un punto essenziale per aprire una stagione nuova è, ad esempio, considerare inaccettabile la logica del doppio livello: quello retorico, affabulatorio, dell’enunciazione dei principi e quello pratico, informato a scambi politici, opacità, opportunismi e interessi ristretti. Per affrancarsi da questa pesante e negativa eredità, occorre mettere al centro del nostro agire la pratica della trasparenza, del controllo sociale, dell’onestà intellettuale. Ne va della credibilità di questo come di qualsiasi progetto politico futuro; ne dipende la possibilità di ricostruire autenticamente un legame fiduciario tra tutti coloro che si impegnano e che partecipano a un nuovo soggetto politico.
Costruire un polo alternativo agli attuali schieramenti, capace di riaprire la speranza per una forza politica nuova a Sinistra, significa dotarsi di questi attributi minimi. E’ una verifica preventiva e continua che occorrerà mettere in atto; troppe le sconfitte e le delusioni per tollerare margini di errore e per lasciare spazio a imprecisioni e scorciatoie.
L’obiettivo di una presenza elettorale può aiutare questo processo di consolidamento e di unione ma non può giustificare ambiguità, sotterfugi e scorciatoie. La dimensione elettorale è ora più che mai una dimensione che mette a nudo le fragilità ideali di molti partiti e movimenti e che, troppo spesso, distrugge invece che costruire capitale sociale e politico. Dobbiamo esserne tutti coscienti.
La lenta deriva del “sono tutti uguali” non è più il frutto di un qualunquismo triviale e ignorante: è spesso una convinzione giustificata dai comportamenti e dalle degenerazioni interne anche alle esperienze inizialmente più vitali e interessanti. Prendiamone atto e dotiamoci di tutti gli anticorpi necessari. Su questa strada occorrerà superare le autoreferenzialità dei gruppi dirigenti, la sindrome dei cerchi magici, il facile leaderismo che ha purtroppo attecchito anche a Sinistra. Sono questi i germi che alimentano il dilagante populismo e, per contrappasso, la disaffezione e l’astensionismo.
Un progetto politico nuovo è dunque da concepire in modo radicalmente e costitutivamente altro dalle pratiche alleanziste e consociative, estraneo agli accordi di vertice e ai consorzi elettorali (il fallimento dell’esperienza della Sinistra Arcobaleno deve rimanere sempre presente quando pensiamo agli errori da evitare).
Ma, soprattutto, occorrerà una forza di proposta capace di mobilitare le passioni, riaccendere la speranza del cambiamento. Nell’appello “Cambiare si può” alcuni punti importanti e qualificanti sono richiamati: lavorare a un’Europa dei popoli fondata su equità e giustizia, assegnare al programma politico le grandi priorità del lavoro e dell’occupazione, della difesa dell’ambiente, della ricostruzione di un welfare cittadino.
Chiamiamo su questo a raccolta idee e persone, passioni ed esperienze. Se questi presupposti saranno chiari e condivisi, potrebbe essere possibile costruire in pochi mesi quello che purtroppo non è stato possibile immaginare negli ultimi anni. Vale la pena provarci, perché cambiare si può.
Venezia, 30 novembre 2012
Fondamente – gruppo di cultura politica
domenica 21 ottobre 2012
La Notte di Valpurga della Politica
La lunga crisi che attraversa la Politica spinge spesso gli animi curiosi e inquieti a interpretare qualunque segnale - sia pur lieve - come foriero di cambiamento e di rinnovamento. Ecco allora che le cronache politiche nostrane sono spesso costellate di annunci sugli “omini novi” che dovrebbero fare uscire questo povero e bistrattato Paese dalle paludi dell’inerzia, della conservazione e del malaffare.
Omini novi di ogni colore e di ogni età, a destra, a sinistra e al centro?
Ma è proprio così?
Chiediamo aiuto a un tedesco che la sapeva lunga sui mali della sua epoca e che – per fortuna – non ha mai smesso le armi di una sana e vitale ironia per rappresentare la propria società e i propri simili: stiamo parlando di Johann Wolfgang von Goethe.
Ecco come classifica i Politici nel Faust (intermezzo della Notte di Valpurga):
GLI AGILI – “Sans souci” si chiamano i giocondi componenti di questa schiera. Visto che sui piedi non si fa strada, camminiamo colla testa in giù.
GLI INETTI – In passato siam riusciti a sbafare qualche boccone, ma adesso, alla grazia di Dio! A forza di ballare le suole son bucate e camminiamo sulle nude piante.
I FUOCHI FATUI – Veniam dai pantani, donde infatti traemmo origine. Ma eccoci qui sul ballo luminosi e servizievoli.
LA METEORA – Son piombata fulminea dall’alto tra gran luce di stelle e di fiamme. Ma eccomi qui in mezzo all’erba. Chi mi dà una mano per rimettermi in piedi?
GLI UOMINI DELLE MASSE – Fate largo! Fate largo tutt’intorno! Calpestate son le erbette. Arrivan questi spiriti, che, benché spiriti, son massicci e pesanti.
Ecco il Vacuo Nuovismo degli AGILI funamboli che popolano il nostro Parlamento e che riempiono ossessivamente gli studi televisivi.
Sono folla gli INETTI nella storia italica: “o Franza o Spagna, purché se magna”. E oggi, poveretti, vessati dai tagli ai costi della Politica, si ritrovano a piangere sui bei tempi andati e a lamentarsi per la triste sorte riservata alla loro professione di scaldapoltrone.
I FUOCHI FATUI, reiterano le medesime lettere del neo-Fascismo della Fiamma tricolore. Oggi quegli egregi parvenus sono al “servizio” delle Istituzioni. Signori luminosi e servizievoli. Tanto servizievoli da non potersi/volersi sottrarre ai loro doveri costituzionali di presidenti, parlamentari, deputati, ministri, eccetera, eccetera.
Ecco ancora il leader che, come METEORA, cala dall’alto, splende d’intensa luce, ma inesorabilmente precipita. Invano chiederà aiuto per rialzarsi ai disattenti cittadini elettori.
Infine, intriganti e ambigui, si affacciano gli UOMINI DELLE MASSE. Travolgono e calpestano le cose del passato. Vorrebbero interpretare lo Spirito del Tempo, segnare la Storia. Ma, nonostante la loro pesantezza, finiscono col travolgere solamente l’erbetta!
Sconfortante panorama quello del circo politico offerto dal Sublime Tedesco. Eppure, ahimé, sembra ancora così nell’anno di grazia 2012 in terra italica, mentre si vanno apparecchiando nuove elezioni politiche. A ciascuno di noi tocca riconoscere, in privato o in pubblico, nomi e ritratti di questi redivivi tipi politici: AGILI, INETTI, FUOCHI FATUI, METEORE e UOMINI DELLE MASSE.
Con codesti specimen, si moltiplicheranno senz’altro le schiere di elettori assenti e trionferanno contra naturam i “meccanici” del Governo.
Ma questa Notte di Valpurga della Politica avrà pur termine un giorno?
Tornerà finalmente a splendere il sole di Maggio?
GP
domenica 14 ottobre 2012
Animalia ad excludendum
Leggere tutti i giorni i quotidiani - e in particolare la cronaca politica - risveglia in me sopiti interessi zoologici. Così, a proposito di animali (e delle nostre comuni metafore letterarie), vorrei:
Un'Italia senza Gattopardi per il rispetto degli agili ed eleganti gattopardi/leopardi (i pochi veri che ancora scorrazzano per le savane africane).
Un'Italia senza Iene per il rispetto di quelle, oneste e timide, che vivono e girovagano a sud del tropico del Cancro.
Un'Italia senza Elefanti per il rispetto di quelli che, in carne ed ossa, hanno bisogno di spazio e non sono per nulla invadenti.
Un'Italia senza avvoltoi né condor, perché ne ho visti di bellissimi sulle Ande (e non si capisce che cosa ci stiano a fare a Roma o a Venezia).
Un'Italia senza parassiti - piccoli o grandi - perché sfruttano e rovinano la nostra vita; del resto, per quei microbi non ho certo rispetto, né qui né altrove, quando fisicamente uccidono in giro per il mondo.
Vorrei invece (pia illusione?):
Un'Italia con qualche volpe in più sull'Appennino, ma lontano, per favore, dai Palazzi del Potere.
Un'Italia con qualche Leone vero, a difendere gli interessi degli umili e degli sfruttati: felini regali capaci di ruggire quando gli ipocriti si fanno insistenti e i codardi massa.
E vorrei ancora e sopra tutto: un'Italia con molte donne e con molti uomini normali; persone che qui, come nel resto del mondo, vogliono vivere in pace e in giustizia e non ne possono più di alcuni propri simili che lordano il mondo e fanno vergognare il consorzio umano.
Immagino così, ingenuamente, una piccola zoologia fantastica - ancora tutta da completare! -, che ci faccia vivere meglio e che ci aiuti, senza pretese, a rinnovare la nostra comune biologia politica.
(GP)
PS: mi scuseranno gli amici animalisti per queste zoo-esclusioni, ma alle nostre latitudini, si sa, possono comodamente stare ben altri animali, forse meno dannosi e certamente meno metaforici.
giovedì 27 settembre 2012
Sostiene ancora Pereira...
Sostiene Pereira che il Professor Monti aveva una predilezione per le atmosfere autunnali: fu in autunno infatti che nacque il suo primo governo e fu ancora in autunno che avvertì come indispensabile la sua conferma alla guida del Paese. Sostiene Pereira che i venti autunnali portoghesi contribuirono non poco alle più importanti decisioni del Professor Salazar, decisioni incomprimibili le sue e sempre per il bene del Portogallo. Sostiene infine Pereira che i cicli naturali delle stagioni travolgono inesorabili le contingenti e fragili passioni politiche degli uomini, perché il vento della Storia soffia come il maestrale in autunno e solo pochi eletti, imperterriti sopra le acque del Tago o guardando dall'alto di una torre di Manhattan, sentono che sono chiamati a un compito supremo: sollevare il Popolo da quel gravoso peso chiamato Democrazia.
venerdì 7 settembre 2012
Sostiene Pereira...
Sostiene Pereira che in Portogallo nel 1932 un professore di economia, al secolo António de Oliveira Salazar, fu chiamato a dirigere il Paese per far fronte alla crisi economica e all’enorme deficit di bilancio che attanagliava la terra lusitana. Il suo intento era di creare una struttura super partes capace di riunire in sé tutte le correnti nazionali e di sostituirsi ai partiti. Rimase al potere per 36 anni e 82 giorni, e il suo regime, noto come “salazarismo”, ebbe termine con una rivoluzione il 25 aprile del 1974.
Sostiene Pereira che anche in Italia nel novembre del 2011 un professore di economia fu chiamato a reggere le sorti del Paese. Molti, sostiene Pereira, lo acclamarono come l'unico in grado di far fronte alla grave crisi della finanza pubblica, capace di ridare stabilità politica e credibilità internazionale all'Italia. Il Parlamento italico docilmente smise di svolgere la propria funzione istituzionale e i partiti ufficiali riconobbero all’unisono la loro incapacità a governare.
Sostiene Pereira che solo pochi in Italia denunciarono lo stato di eccezione nel quale le istituzioni si trovavano e ancor meno cittadini si angustiarono su quanto fosse urgente un ritorno a un governo democraticamente eletto.
Sostiene Pereira che anche in Portogallo nel 1958 le elezioni decretarono un nuovo presidente chiamato a sostituire il professor Salazar ma che per strani eventi - per nulla acclarati - nessun ricambio avvenne in seguito ai vertici dello Stato.
Sostiene Pereira che in Italia, un anno dopo l'ascesa al potere del Professore, erano state annunciate per la primavera del 2012 regolari elezioni parlamentari, elezioni queste chiamate a decidere la nuova maggioranza politica e la formazione di un governo democraticamente eletto. Ma s’interroga inquieto Pereira: “non sarà questo Professore prestato alla Politica destinato anch’egli a governare più a lungo? Magari tanto a lungo quanto occorse all’esimio collega economista portoghese?”. E, s’interroga ancora Pereira: “non ricorderanno forse un giorno gli storici europei questo periodo della storia italiana come “montismo” ?” E ancora, riflette allarmato Pereira: “quale rivoluzione culturale e politica dovranno un giorno conoscere gli italiani per assistere a un ritorno pieno alla democrazia?”.
Sostiene, infine, rassegnato Pereira che solo i posteri sapranno trovare un’appagante risposta a siffatti quesiti e che solo gli italiani che verranno, fra una o due generazioni, potranno davvero misurare le analogie e le differenze che hanno accompagnato e segnato, a cavallo tra due secoli, queste due storie mediterranee.
Redattore di Pereira (GP)
martedì 24 luglio 2012
FUTURA TORRE DI BABELE A MARGHERA
Leggo sul giornale di oggi: "consiglio comunale vota compatto il progetto della Torre di Cardin". Solo tre i contrari: Gavagnin (5 stelle), Bonzio (Fds) e Scarpa (Gruppo Misto). Il resto tutti folgorati sulla via di Damasco dalla manna caduta dal cielo (250 metri di manna). E tutto questo in barba a qualsiasi pianificazione urbanistica, valutazione di impatto, fattibilità economica, eccetera eccetera.
Un insegnamento prezioso per tutti noi cittadini: le regole ci sono ma solo per i cittadini normali. Poi ci sono quelli che "sono più uguali degli altri" (Orwell, Animal Farm). Roba da Repubblica delle Banane! Neppure in Africa si vedono ormai cose del genere: decidere così le opere e gli investimenti che pesano sul destino della comunità.
L'unica cosa che mi consola è che è tutto un grande bluff sul piano finanziario perché Cardin quei 2 miliardi non ce li ha proprio e tutto il suo gruppo vale forse un 1/5 di quell'investimento. Presa in giro? Può darsi. Oppure dietro c'è ben altro.
Credo che comunque la Torre della Luce cambierà presto nome e sarà ribattezzata: Torre di Babele. Con tutti contro tutti a lanciarsi colpe, improperi l'uno con l'altro, dentro e fuori della Giunta, rimpallandosi le responsabilità su chi ha deciso e su come ha deciso.
E poi, nella peggiore tradizione, ci saranno schiere di farisei e di filistei pronti a negare ogni cosa: diranno che loro sono sempre stati contrari (ma che purtroppo non ce ne eravamo accorti!) E lo faranno senza fare una piega.
Intanto Venezia avrà assistito alla scrittura di un'altra brutta pagina della politica e del governo locale. E coloro che oggi non hanno un lavoro, che stanno pagando il prezzo più alto di questa drammatica crisi economica e sociale, oltre a non aver avuto alcun beneficio da questo cancan, saranno stati, per soprammercato, presi sonoramente in giro.
Giampietro Pizzo
martedì 19 giugno 2012
giovedì 15 marzo 2012
“La questione morale” - L’intervista a Enrico Berlinguer di Eugenio Scalfari
La passione è finita?
Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”. La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora…
Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.
È quello che io penso.
Per quale motivo?
I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c’è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le “operazioni” che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.
Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.
E secondo lei non corrisponde alla situazione?
Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo.
La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel ‘74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell’81 per l’aborto, gli italiani hanno fornito l’immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane.
Veniamo all’altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei descrive.
In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l’andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito “diverso” dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.
Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d’infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C’è da averne paura?
Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all’equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l’operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?
Veniamo alla seconda diversità.
Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.
Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.
Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant’anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi.
Non voi soltanto.
È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell’economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l’iniziativa individuale sia insostituibile, che l’impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell’attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?
Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un’offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.
Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s’intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l’occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate.
Dunque, siete un partito socialista serio…
…nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo…
Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?
No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c’è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese.
Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c’è o no?
Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte c’è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e sanza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta.
Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?
La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semmplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono profare d’essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. [...] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude.
Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d’accordo sul fatto che il nemico principale da battere in questo momento sia l’inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell’obiettivo. È anche lei del medesimo parere?
Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L’inflazione è -se vogliamo- l’altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l’una e contro l’altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare l’inflazione si debba pagare il prezzo d’una recessione massiccia e d’una disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili.
Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell’ “austerità”. Non mi pare che il suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del partito…
Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione economica dei paesi industializzati -di fronte all’aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all’avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la “civiltà dei consumi”, con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma dicevamo dell’austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell’economia, ma che l’insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l’avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il problema dell’austerità e della contemporanea lotta all’inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati.
E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?
Il costo del lavoro va anch’esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell’aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l’operazione non può riuscire.
«La Repubblica», 28 luglio 1981
Un'analisi attualissima a 30 anni di distanza. Crisi della politica e degenerazione dei partiti; questione morale e critica del modello di sviluppo. Sino ai temi dell'oggi: precarietà, emarginazione e lavoro. Una grande lezione, perché avere memoria è l'unica via per costruire futuro. Ma la prima cosa che un'autentica Politica deve ritrovare è un segnale di diversità rispetto all'occupazione del potere fine a sé stessa e alla logica degli affari di gruppo e personali. E' quella diversità di cui parla Berlinguer che più manca.
Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”. La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora…
Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.
È quello che io penso.
Per quale motivo?
I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c’è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le “operazioni” che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.
Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.
E secondo lei non corrisponde alla situazione?
Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo.
La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel ‘74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell’81 per l’aborto, gli italiani hanno fornito l’immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane.
Veniamo all’altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei descrive.
In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l’andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito “diverso” dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.
Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d’infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C’è da averne paura?
Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all’equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l’operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?
Veniamo alla seconda diversità.
Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.
Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.
Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant’anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi.
Non voi soltanto.
È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell’economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l’iniziativa individuale sia insostituibile, che l’impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell’attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?
Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un’offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.
Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s’intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l’occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate.
Dunque, siete un partito socialista serio…
…nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo…
Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?
No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c’è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese.
Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c’è o no?
Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte c’è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e sanza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta.
Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?
La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semmplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono profare d’essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. [...] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude.
Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d’accordo sul fatto che il nemico principale da battere in questo momento sia l’inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell’obiettivo. È anche lei del medesimo parere?
Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L’inflazione è -se vogliamo- l’altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l’una e contro l’altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare l’inflazione si debba pagare il prezzo d’una recessione massiccia e d’una disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili.
Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell’ “austerità”. Non mi pare che il suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del partito…
Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione economica dei paesi industializzati -di fronte all’aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all’avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la “civiltà dei consumi”, con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma dicevamo dell’austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell’economia, ma che l’insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l’avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il problema dell’austerità e della contemporanea lotta all’inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati.
E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?
Il costo del lavoro va anch’esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell’aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l’operazione non può riuscire.
«La Repubblica», 28 luglio 1981
Un'analisi attualissima a 30 anni di distanza. Crisi della politica e degenerazione dei partiti; questione morale e critica del modello di sviluppo. Sino ai temi dell'oggi: precarietà, emarginazione e lavoro. Una grande lezione, perché avere memoria è l'unica via per costruire futuro. Ma la prima cosa che un'autentica Politica deve ritrovare è un segnale di diversità rispetto all'occupazione del potere fine a sé stessa e alla logica degli affari di gruppo e personali. E' quella diversità di cui parla Berlinguer che più manca.
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lunedì 13 febbraio 2012
Venezia: è tempo di Bilancio
Lettera aperta al Sindaco di Venezia
Bilancio: affrontare la crisi con democrazia, responsabilità e coesione sociale
Egregio Sindaco,
Con la manovra del Governo Monti, la finanza comunale si troverà di fronte a decisioni difficili e cariche di conseguenze: tagliare ulteriormente i servizi pubblici essenziali oppure uscire dal Patto di stabilità.
Negli ultimi due anni, la discussione e l’approvazione del Bilancio del Comune di Venezia hanno risentito di un clima di emergenza che ha portato a decisioni dell’ultimo minuto per poter “fare cassa“ e per salvare, in qualche modo, il salvabile. Ciò ha portato all’impoverimento del patrimonio pubblico e dei beni comuni; i proventi di queste operazioni sono stati indirizzati alla gestione ordinaria con grave pregiudizio per il futuro della città.
Che cosa ci si può attendere nel 2012? Quali saranno le linee guida che l’Amministrazione comunale intende perseguire quest’anno?
Riteniamo che questo momento difficile possa essere un’opportunità per giungere a scelte migliori, partecipate e non subite, con un guadagno per la crescita della democrazia e della coesione del tessuto sociale. Noi pensiamo che, sulla scorta di tante esperienze anche italiane, sia possibile aprire un percorso di democrazia partecipativa sul bilancio comunale 2012.
Abbiamo davanti un tempo ragionevole per compiere un iter che preveda di:
- informare i cittadini, con un Town Meeting (incontro pubblico aperto alla città), in merito allo stato delle entrate e delle uscite della finanza comunale e delle risorse disponibili (patrimonio comunale e livello di indebitamento);
- formulare, attraverso il lavoro di una commissione aperta, con la possibilità di consultare le strutture amministrative comunali, una proposta di bilancio preventivo che individui le scelte e le priorità nell’uso delle risorse comunali;
- giungere a proporre, grazie a questo percorso - in cui ogni tappa sarà trasparente e pubblica - soluzioni adeguate, condivise e quindi sostenibili.
I risultati del lavoro preparatorio dovrebbero essere disponibili entro il mese di aprile per poter alimentare un dibattito rigoroso sulle opzioni possibili.
Questo processo di partecipazione cittadina costituirebbe un prezioso contributo nella preparazione del principale atto amministrativo del Comune in un clima di un buon governo cittadino. È chiaro che la decisione ultima spetterà al Consiglio comunale che potrà però avvalersi di un contributo partecipato e condiviso.
Egregio Sindaco, confidiamo che lei, insieme alla Giunta e al Consiglio comunale, possa assumere con chiara volontà politica questa richiesta di partecipazione e condivisione di quel cruciale atto di indirizzo politico che è il Bilancio, atto da cui dipendono quelle scelte che coinvolgono il futuro della vita dei cittadini e della città.
bilanciopartecipatove@gmal.com
firmatari della richiesta
40xVenezia
Coordinamento Io Decido
Fondamente
Venessia.com
Aglaia
Consulta dell'Ambiente
Associazione Spiazzi
Associazione Il Villaggio (Venezia-Lido)
Matrioska
Comitato Acqua Bene Comune
contatto diretto
bilanciopartecipatove@gmal.com
Bilancio: affrontare la crisi con democrazia, responsabilità e coesione sociale
Egregio Sindaco,
Con la manovra del Governo Monti, la finanza comunale si troverà di fronte a decisioni difficili e cariche di conseguenze: tagliare ulteriormente i servizi pubblici essenziali oppure uscire dal Patto di stabilità.
Negli ultimi due anni, la discussione e l’approvazione del Bilancio del Comune di Venezia hanno risentito di un clima di emergenza che ha portato a decisioni dell’ultimo minuto per poter “fare cassa“ e per salvare, in qualche modo, il salvabile. Ciò ha portato all’impoverimento del patrimonio pubblico e dei beni comuni; i proventi di queste operazioni sono stati indirizzati alla gestione ordinaria con grave pregiudizio per il futuro della città.
Che cosa ci si può attendere nel 2012? Quali saranno le linee guida che l’Amministrazione comunale intende perseguire quest’anno?
Riteniamo che questo momento difficile possa essere un’opportunità per giungere a scelte migliori, partecipate e non subite, con un guadagno per la crescita della democrazia e della coesione del tessuto sociale. Noi pensiamo che, sulla scorta di tante esperienze anche italiane, sia possibile aprire un percorso di democrazia partecipativa sul bilancio comunale 2012.
Abbiamo davanti un tempo ragionevole per compiere un iter che preveda di:
- informare i cittadini, con un Town Meeting (incontro pubblico aperto alla città), in merito allo stato delle entrate e delle uscite della finanza comunale e delle risorse disponibili (patrimonio comunale e livello di indebitamento);
- formulare, attraverso il lavoro di una commissione aperta, con la possibilità di consultare le strutture amministrative comunali, una proposta di bilancio preventivo che individui le scelte e le priorità nell’uso delle risorse comunali;
- giungere a proporre, grazie a questo percorso - in cui ogni tappa sarà trasparente e pubblica - soluzioni adeguate, condivise e quindi sostenibili.
I risultati del lavoro preparatorio dovrebbero essere disponibili entro il mese di aprile per poter alimentare un dibattito rigoroso sulle opzioni possibili.
Questo processo di partecipazione cittadina costituirebbe un prezioso contributo nella preparazione del principale atto amministrativo del Comune in un clima di un buon governo cittadino. È chiaro che la decisione ultima spetterà al Consiglio comunale che potrà però avvalersi di un contributo partecipato e condiviso.
Egregio Sindaco, confidiamo che lei, insieme alla Giunta e al Consiglio comunale, possa assumere con chiara volontà politica questa richiesta di partecipazione e condivisione di quel cruciale atto di indirizzo politico che è il Bilancio, atto da cui dipendono quelle scelte che coinvolgono il futuro della vita dei cittadini e della città.
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