venerdì 12 dicembre 2008
sabato 6 dicembre 2008
Tasse di scopo e scopo delle tasse
Parlare di economia in un periodo di crisi significa parlare di risorse pubbliche. Sono quelle - non le risorse private - che consentono di avere “vista lunga” su quello che va fatto e su quello che non va fatto.
Risorse pubbliche da allocare e risorse pubbliche da trovare. E’ un tema caldo sia per le scelte nazionali e internazionali che per le politiche locali.
Vorremmo in questo caso dire poche cose sugli strumenti di politica locale. E sul tanto rinomato federalismo fiscale.
Il federalismo fiscale nasce da un assunto: per rendere accettabile l’imposizione fiscale bisogna avvicinare il bastone alla carota, ovvero rendere evidente il nesso tra il tributo imposto al cittadino e l’utilità che ne deriva una volta che queste risorse sono impiegate dal soggetto pubblico.
Questo è l’argomento principe del federalismo fiscale. Una applicazione ancora più forte e stringente di questo teorema si ritrova nelle cosiddette tasse (imposte) di scopo.
L’effetto “annuncio” della Lega - e di Calderoli, in particolare - ha prodotto in questi mesi molte aspettative. Aspettative di alleggerimento fiscale o aspettative di migliore qualità della spesa?
Difficile rispondere, ma le condizioni affinché questa operazione si traduca in un sonoro flop ci sono purtroppo tutte. I segnali sono di tutt’altro segno: più si rende vicino il tributo, più c’è chi si lamenta contro e nessuno che si dichiara per.
Ne nasce, paradossalmente, un teorema rovesciato del federalismofiscale: più si è prossimi, più si è litigiosi. E tra i due litiganti – come si sa - il terzo gode – con inevitabile tripudio delle innumerevoli legioni di evasori, elusori e birbanti di sempre.
Un’applicazione di questo teorema rovesciato ci viene da Venezia (in buona compagnia, sembra, con altre città d’arte: Roma, Firenze, etc...).
Parliamo della tassa (imposta) di scopo sul turismo. Al solo paventare l’idea di introdurre un tributo legato al comparto turistico (tassa di soggiorno o altro), apriti cielo! Alte si sono levate le urla di protesta degli operatori e le reazioni ostili delle forze politiche che intendono rappresentarle non si sono fatte attendere.
A poco è valso ricordare che il patrimonio urbano, culturale e artistico costituisce l’asset principale dell’economia turistica: e come in ogni impresa, il capitale va mantenuto, riprodotto, eccetera, eccetera.
Sappiamo bene che quasi nessun privato se ne occupa, perché quel patrimonio è pubblico – dunque, secondo il mercato, di nessuno. Logica vorrebbe invece che, trattandosi di bene pubblico - dunque di tutti -, ad esso vadano destinate risorse pubbliche per la sua conservazione.
In un mondo ideale, sarebbe di per sé evidente la necessità che gli imprenditori turistici contribuissero, attraverso il prelievo fiscale, alla conservazione di questo bene pubblico che “sostiene” la loro attività privata.
Nel nostro prosaico mondo, gli albergatori, i ristoratori, gli esercenti e i commercianti veneziani continuano a comportarsi come dei “rentiers imprevidenti”. “Rentiers” perché vivono di una rendita di posizione, prodotta non dalle loro fatiche ma dalla storia e dalle società che ci hanno preceduto; "imprevidenti" perché costoro non si preoccupano affatto di conservarne la riproduzione.
D’altro canto, non è alla buona coscienza degli operatori turistici di oggi o di domani che dobbiamo fare appello: si sa che quando ci sono interessi in gioco, il mercante è sordo, anzi sordissimo.
Il problema è che quel patrimonio pubblico non ha “voce”, perché, in questi decenni, si è distrutto anche quel minimo senso di appartenenza alla comunità e di rispetto della cosa pubblica che la nostra società aveva saputo esprimere. Perché - ci si potrebbe senza retorica chiedere - lottare per una città pulita; perché mobilitarsi per riaprire uno spazio pubblico o per preservare edifici scolastici, parchi, luoghi fruibili da tutti i cittadini?
Queste domande, purtroppo, non hanno oggi “voce”, né voci sufficienti che ne sostengano la necessità; nella migliore delle ipotesi, la loro voce è flebile e stentata. Da una parte, alte si levano le urla delle corporazioni organizzate; dall’altra, flebili e timide rimangono le voci dei cittadini che vivono la città come spazio pubblico non mercantile.
Questo è il triste stato delle nostre cose italiche – a Venezia, come a Roma o a Firenze.
Che fare, allora?
Se la logica degli interessi non conosce persuasione, e a poco valgono gli appelli alla mancanza di risorse pubbliche per il mantenimento del capitale immobiliare e infrastrutturale da cui derivano i loro proventi gli operatori turistici, bisogna per forza trovare altre strade.
Sappiamo ormai che il principale effetto dell’economia turistica nelle città d’arte è quello di un vero e proprio “spiazzamento” che l’economia turistica produce rispetto alle economie concorrenti - in primis, rispetto alla dimensione residenziale e ai servizi a questa legata.
Bene, la ricetta non è facile ma è semplice: vogliamo una tassa di scopo sul turismo i cui proventi siano destinati integralmente alla Casa. Vogliamo politiche di housing sociale di dimensioni macroeconomiche rilevanti (non le poche decine di unità immobiliari che ogni Comune si impegna a realizzare per tenere alta la bandiera della filantropia sociale).
Queste sono le voci che occorrono - quelle dei residenti cacciati dai centri storici, quelle degli studenti e dei ricercatori che non trovano nulla di decente a prezzi congrui rispetto ai loro redditi, quelle dei giovani che vogliono vivere per conto proprio, quelle delle famiglie e dei bimbi che vogliono vivere in spazi densi e vivi e non in deserti urbani – per opporsi efficacemente alle urla dei bottegai di maschere e paccottiglia, dei gondolieri e degli “intromettitori” di ogni specie. Per contrapporre davvero un’idea alta di città.
C’è un più – più risorse pubbliche per la città – e c’è un meno – meno profitti in tasca a chi guadagna e non contribuisce. Chi avrà più voce vincerà questa battaglia politica.
Chiediamo almeno di avere un’opportunità per misurarci. Per questo che i politici veri si mettano da un lato e i demagoghi e i politicanti si mettano dall’altra parte.
Giampietro Pizzo
PS: Per contribuire, sia pure in piccola parte, a contenere la grande confusione che regna nel nostro Paese, male non farebbe ricordare a tutti la differenza che passa tra tasse e imposte. Le prime sono il prezzo per un servizio pubblico; le seconde sono un contributo economico alla società in cui viviamo. Come recita la nostra Costituzione, le imposte servono a ridistribuire risorse fra chi ha molto e chi non ha abbastanza. In un’epoca di crisi, tornare all’idea delle imposte come forma di solidarietà non guasterebbe davvero!
Risorse pubbliche da allocare e risorse pubbliche da trovare. E’ un tema caldo sia per le scelte nazionali e internazionali che per le politiche locali.
Vorremmo in questo caso dire poche cose sugli strumenti di politica locale. E sul tanto rinomato federalismo fiscale.
Il federalismo fiscale nasce da un assunto: per rendere accettabile l’imposizione fiscale bisogna avvicinare il bastone alla carota, ovvero rendere evidente il nesso tra il tributo imposto al cittadino e l’utilità che ne deriva una volta che queste risorse sono impiegate dal soggetto pubblico.
Questo è l’argomento principe del federalismo fiscale. Una applicazione ancora più forte e stringente di questo teorema si ritrova nelle cosiddette tasse (imposte) di scopo.
L’effetto “annuncio” della Lega - e di Calderoli, in particolare - ha prodotto in questi mesi molte aspettative. Aspettative di alleggerimento fiscale o aspettative di migliore qualità della spesa?
Difficile rispondere, ma le condizioni affinché questa operazione si traduca in un sonoro flop ci sono purtroppo tutte. I segnali sono di tutt’altro segno: più si rende vicino il tributo, più c’è chi si lamenta contro e nessuno che si dichiara per.
Ne nasce, paradossalmente, un teorema rovesciato del federalismofiscale: più si è prossimi, più si è litigiosi. E tra i due litiganti – come si sa - il terzo gode – con inevitabile tripudio delle innumerevoli legioni di evasori, elusori e birbanti di sempre.
Un’applicazione di questo teorema rovesciato ci viene da Venezia (in buona compagnia, sembra, con altre città d’arte: Roma, Firenze, etc...).
Parliamo della tassa (imposta) di scopo sul turismo. Al solo paventare l’idea di introdurre un tributo legato al comparto turistico (tassa di soggiorno o altro), apriti cielo! Alte si sono levate le urla di protesta degli operatori e le reazioni ostili delle forze politiche che intendono rappresentarle non si sono fatte attendere.
A poco è valso ricordare che il patrimonio urbano, culturale e artistico costituisce l’asset principale dell’economia turistica: e come in ogni impresa, il capitale va mantenuto, riprodotto, eccetera, eccetera.
Sappiamo bene che quasi nessun privato se ne occupa, perché quel patrimonio è pubblico – dunque, secondo il mercato, di nessuno. Logica vorrebbe invece che, trattandosi di bene pubblico - dunque di tutti -, ad esso vadano destinate risorse pubbliche per la sua conservazione.
In un mondo ideale, sarebbe di per sé evidente la necessità che gli imprenditori turistici contribuissero, attraverso il prelievo fiscale, alla conservazione di questo bene pubblico che “sostiene” la loro attività privata.
Nel nostro prosaico mondo, gli albergatori, i ristoratori, gli esercenti e i commercianti veneziani continuano a comportarsi come dei “rentiers imprevidenti”. “Rentiers” perché vivono di una rendita di posizione, prodotta non dalle loro fatiche ma dalla storia e dalle società che ci hanno preceduto; "imprevidenti" perché costoro non si preoccupano affatto di conservarne la riproduzione.
D’altro canto, non è alla buona coscienza degli operatori turistici di oggi o di domani che dobbiamo fare appello: si sa che quando ci sono interessi in gioco, il mercante è sordo, anzi sordissimo.
Il problema è che quel patrimonio pubblico non ha “voce”, perché, in questi decenni, si è distrutto anche quel minimo senso di appartenenza alla comunità e di rispetto della cosa pubblica che la nostra società aveva saputo esprimere. Perché - ci si potrebbe senza retorica chiedere - lottare per una città pulita; perché mobilitarsi per riaprire uno spazio pubblico o per preservare edifici scolastici, parchi, luoghi fruibili da tutti i cittadini?
Queste domande, purtroppo, non hanno oggi “voce”, né voci sufficienti che ne sostengano la necessità; nella migliore delle ipotesi, la loro voce è flebile e stentata. Da una parte, alte si levano le urla delle corporazioni organizzate; dall’altra, flebili e timide rimangono le voci dei cittadini che vivono la città come spazio pubblico non mercantile.
Questo è il triste stato delle nostre cose italiche – a Venezia, come a Roma o a Firenze.
Che fare, allora?
Se la logica degli interessi non conosce persuasione, e a poco valgono gli appelli alla mancanza di risorse pubbliche per il mantenimento del capitale immobiliare e infrastrutturale da cui derivano i loro proventi gli operatori turistici, bisogna per forza trovare altre strade.
Sappiamo ormai che il principale effetto dell’economia turistica nelle città d’arte è quello di un vero e proprio “spiazzamento” che l’economia turistica produce rispetto alle economie concorrenti - in primis, rispetto alla dimensione residenziale e ai servizi a questa legata.
Bene, la ricetta non è facile ma è semplice: vogliamo una tassa di scopo sul turismo i cui proventi siano destinati integralmente alla Casa. Vogliamo politiche di housing sociale di dimensioni macroeconomiche rilevanti (non le poche decine di unità immobiliari che ogni Comune si impegna a realizzare per tenere alta la bandiera della filantropia sociale).
Queste sono le voci che occorrono - quelle dei residenti cacciati dai centri storici, quelle degli studenti e dei ricercatori che non trovano nulla di decente a prezzi congrui rispetto ai loro redditi, quelle dei giovani che vogliono vivere per conto proprio, quelle delle famiglie e dei bimbi che vogliono vivere in spazi densi e vivi e non in deserti urbani – per opporsi efficacemente alle urla dei bottegai di maschere e paccottiglia, dei gondolieri e degli “intromettitori” di ogni specie. Per contrapporre davvero un’idea alta di città.
C’è un più – più risorse pubbliche per la città – e c’è un meno – meno profitti in tasca a chi guadagna e non contribuisce. Chi avrà più voce vincerà questa battaglia politica.
Chiediamo almeno di avere un’opportunità per misurarci. Per questo che i politici veri si mettano da un lato e i demagoghi e i politicanti si mettano dall’altra parte.
Giampietro Pizzo
PS: Per contribuire, sia pure in piccola parte, a contenere la grande confusione che regna nel nostro Paese, male non farebbe ricordare a tutti la differenza che passa tra tasse e imposte. Le prime sono il prezzo per un servizio pubblico; le seconde sono un contributo economico alla società in cui viviamo. Come recita la nostra Costituzione, le imposte servono a ridistribuire risorse fra chi ha molto e chi non ha abbastanza. In un’epoca di crisi, tornare all’idea delle imposte come forma di solidarietà non guasterebbe davvero!
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