Mickey Mouse è già tra noi, ma tutti, dall’Amministrazione comunale in giù, facciamo finta di non saperlo. Di che cosa parliamo? Non di semplici e innocui fumetti purtroppo, ma del fatto che la trasformazione del centro storico di Venezia in una vera e propria Disneyland sta già avvenendo.
Ve lo ricordate John Kay, docente della London School of Economics? Fu lui che, con una buona dose di cinismo e un’onestà intellettuale tutta anglosassone, esordì dicendo: “Venezia è già un parco tematico. Come centro di affari, politico ed economico, è morta centinaia di anni fa e solo il flusso dei suoi visitatori la tiene in vita. Oggi, la maggioranza delle persone nella città sono turisti, e la maggior parte di chi vi lavora sono pendolari legati al turismo. L’economia di Venezia è già quella di Disneyland e non quella di Bologna o di Los Angeles”. Allora, aggiungeva il figlio purissimo della perfida Albione, tanto vale farlo fruttare questo benedetto giacimento turistico!!
Da qui bisogna dunque partire, anche se il nostro italico carattere tende a negare l’evidenza e preferisce ostinarsi nel ripetere che nulla è irreparabile e che basta solo un mite ed equilibrato buon governo della città.
Quella veneziana è invece – bisogna innanzitutto ammetterlo - una vera e propria monocultura economica: solo l’indotto occupazionale turistico conta; solo gli interessi di albergatori, ristoratori, gondolieri, tassisti, commercianti, venditori ambulanti pesano.
E pesano non solo economicamente ma anche politicamente. Soldi e voti; licenze e consenso; queste sono le pesanti dinamiche cittadine. Il resto, purtroppo, è marginale; buono magari per pochi ed estemporanei esercizi di retorica populista, ma nulla di più.
Da questa constatazione occorre partire.
E bisogna aggiungere che il cammino del cambiamento è davvero impervio: non si tratta di imboccare un tranquillo sentiero di montagna ma di cimentarsi in un autentico sesto grado. Quanti hanno oggi, fra noi, l’audacia e il coraggio di intraprenderlo?
La monocultura turistica ha distrutto e sta distruggendo tutta la biodiversità economica, culturale e sociale della città: ha distrutto l’artigianato e i mestieri tradizionali, ma ha distrutto anche quei luoghi della conoscenza che a partire dagli anni ’60 avevano fatto di Venezia un laboratorio di pensiero e di cultura in Italia e all’estero.
Oggi il sistema universitario veneziano è ridotto in molti casi a un grosso liceo di provincia; e dalla provincia e dal territorio regionale provengono buona parte degli studenti e dei ricercatori. Poche le eccezioni (la Venice International University, Thetis e poco altro) e, come tutte le eccezioni, fatte apposta per confermare la regola.
Mentre a Londra, a Bangalore o a Pechino, ma anche a Torino, Milano e Pisa si investe nell’apertura internazionale delle Università e delle città che ospitano laboratori e centri di ricerca, qui apriamo a McDonald's e MSC (e altre allegre navi da crociera).
Eppure proprio questa città - sopravvissuta alle industrie di Marghera e al sacco urbanistico che ha segnato in profondità molte città italiane - avrebbe oggi i numeri, tutti i numeri, per diventare un grande centro di produzione immateriale.
Una Venezia post-moderna e autentica, efficiente e umana, hi-tech e tradizionale.
Il sistema universitario potrebbe essere l’ossatura su cui costruire e immaginare un nuovo ritmo urbano, nuove qualità sociali, nuovi luoghi del vivere.
Ma per farlo, occorre volontà politica e occorrono risorse. C’è bisogno di servizi pubblici e privati adeguati – trasporti in primis ; occorre una politica della casa degna di questo nome.
In definitiva, si tratterebbe di sviluppare una rete infrastrutturale materiale e immateriale in grado di rendere appetibile per ricercatori e artisti, studenti e tecnici, stare qui invece che a Londra o Berlino.
Ci sarebbe tanto da fare, tanto da costruire.
Ma per farlo bisogna ridurre, ridimensionare drasticamente la monocultura turistica. Altrimenti nessuna altra iniziativa potrà attecchire.
Si tratterebbe di mettere in cantiere una vera e propria riconversione produttiva: librerie al posto di pizzerie al taglio; cinema e teatri al posto di alberghi e “vivaldate”; supermercati e negozi normali al posto di ristoranti e bar; lavanderie, centri di informatica ed elettronica invece di negozi di maschere e ciarpame.
Si tratterebbe anche di smetterla di considerare il destino del centro storico veneziano come qualcosa di separato da quello della Terraferma, di Mestre, Marghera, di un hinterland sempre più (malamente) integrato di un milione di abitanti.
E poi ci vuole un’altra immagine della città nel mondo. E’ da criminali continuare a spendere soldi pubblici in attività di promozione (a che cosa serve l’Azienda di promozione turistica?) quando si tratta semmai di arginare lo tsunami turistico che arriverà su Venezia (da Cina e India in particolare) nei prossimi anni.
Venezia ha bisogno di scelte politiche. Non basta lasciar fare al mercato, perché contro questo monopolio il mercato da solo non può e non vuole immaginare nulla di diverso.
Questo, lo sappiamo, significa intaccare rendite di posizione e interessi forti, fortissimi.
Abbiamo il coraggio di farlo? Abbiamo, a mo’ d’esempio, la forza di non dare più licenze per chioschi e baracchini che infestano la città e rendono impraticabile lo spazio pubblico per qualsiasi altra attività?
Molti hanno già detto di no, che quel coraggio non ce l’hanno, perché, dicono, bisogna essere “realisti”, perché così va il mondo....
Noi pensiamo che occorra visione. Non visionari, ma politici lungimiranti e lucidi, coraggiosi e determinati. Di questo abbiamo bisogno. Altrimenti, destinati come siamo a vivere tra Mickey Mouse e Donald Duck, non ci resta che piangere. O andarcene.
Venezia, 19 novembre 2007
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mercoledì 21 novembre 2007
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